30 giugno 2006

ARGENTO! (capitolo 35)




Quando le prime voci si diffusero a Su Mortoriu dicevano che la miniera d’argento era crollata e che al posto della piana adesso c’era qualcosa come il cratere di un enorme vulcano.

Ines era sveglia, non aveva chiuso occhio e nel suo modo riservato fremeva e aspettava che il vento le portasse notizie di quel figlio che non era ancora tornato.
Quando i Parris, dalla finestra, vedendola sveglia a quell’ora improbabile le dissero che era crollata una parte della piana lei non perse altro tempo.
Si fece il segno della croce e stese uno scialle nero sulle spalle per correre fuori. Cercò Donna Aurelia per chiederle il cavallo in prestito, dato che Astor e suo nipote Alvino se ne erano andati con il carro, ma non trovò nessuno in quella grotta che fungeva da abitazione. E nessuno d’altra parte l’aveva vista da molte ore.
In pochi minuti si erano svegliati tutti in quel borgo e ci si preparava ad andare a vedere lo spettacolo terrificante di quel cratere immenso.

Salì sul primo convoglio, con la gente che andava a vedere e prestare i primi eventuali soccorsi.

Suo figlio Astor era partito per andare in città con il carro e con i corpi dei due bracconieri colpiti a morte, ore prima.
Questo fatto e la cattiva notizia della piana che era sprofondata non promettevano niente di buono.

Astor, lei avrebbe voluto che non si mettesse nei guai, ma sapeva benissimo come lui la pensava. “sono i guai che cercano noi, mamma, non il contrario”. Così le diceva sempre suo figlio con un certo orgoglio.
Quel figlio aveva ereditato da suo padre anche un’altra teoria: “è attraverso le difficoltà che capisci quanto vali e con quale passo si affronta la grande danza della vita”.
Ed era con quella teoria che lei era rimasta vedova e non si rassegnava, adesso, a diventare orfana di figlio. Perché di solitudine e miseria nera ne aveva abbastanza.

Lui era cresciuto nei vicoli e nei pascoli della piana piuttosto che a scuola con un maestro. E forse proprio per questo motivo la vita piatta e da salotto non aveva mai sfiorato, come idea, neppure nel libro dei desideri.
D’altra parte chi nasceva da quelle parti era difficilmente sensibile a certe eventualità.

Sembrava che le piste percorse dalla buona sorte avessero dimenticato completamente quelle latidudini lasciandole a seccare sotto il sole torrido, che d’altronde faceva benissimo alle coltivazioni di Banane Majestic e cacao e caffé.


Quando comparve sulla collina sovrastante la piana, Don Enrico il senatore, a cavallo del suo mustang bianco importato dal Texas, in compagnia dei suoi scagnozzi e guardie del corpo, non credette ai suoi occhi.
“Per la malora Luisito, hai mai visto niente del genere?”
“Nossignore; sembra che se la sia inghiottita l’inferno, questa dannata piana do diablo”

Presero a ridere nella maniera sguaiata tipica loro. Ed erano decine, tra guardie del corpo e semplici caporali, che scortavano il potente latifondista; tutti venuti di corsa dai bananeti circorstanti per godersi lo spettacolo.

“guarda con il binocolo, ma quello non è un corpo umano?
“ Si, sì, guarda lì di fianco, ne escono degli altri”

Rimasero a schiamazzare con rinnovato vigore quando si resero conto che da quella mota fuoriuscivano degli uomini.
E se avvenne che qualcuno, ingenuamente, si ponesse l’interrogativo se non era il caso di avvertire l’autorità per prestare soccorso, per poco non fu linciato e trattato da guastafeste.

“ma guarda, chi sono quelli abitanti delle caverne?
“Da dove diamine spuntano?”
“e allora che il diavolo se li porti, se vogliono vivere sottoterra che ci restino.
Ha ha ha “
“Passami la borraccia, Fefé, che questo fango mi ha messo sete”.

In quel momento il latifondista e gli sgherri inquadrarono un carro che arrivava a una certa velocità ignaro di quello che era accaduto. Si spanciarono dalle risa quando videro quel carro inghiottito dal fango con il suo carico. Il duca di porcellana e i chicos furono ricoperti e inghiottiti letteralmente da quella melma terribile. Elmer risvegliatosi all’improvviso dalla sua furia si muoveva furtivo. Il suo istinto gli diceva che il pericolo era vicinissimo.
Lasciò cadere il corpo di Astor. Lui si finse svenuto.
Elmer si alzò in piedi e si tastò nel petto, meccanicamente, cercando il taccuino nero dei picocca. Guardava lontano ma l’alba non era sorta completamente e la visibilità non era totale.
Cercava di scrutare, aveva vist benissimo, un carro con i chicos e il duca di porcellana che erano arrivati in velocità.
Poi erano spariti nella frana di fango.
Non era sereno.
Cercare. Cercare ancora.
Questo gli diceva il suo istinto.
Si portò verso il carro rovesciato di Astor che stava scomparendo anche questo, immerso nel fango. Non ne abbe paura, si sentiva protetto da quello strano destino di ribelle.
Si inoltrava nel fango, adesso, a cercare quel libro che, non sapeva perché, ma per lui valeva più della sua vita.
Affondava Elmer. E quel fango era perfino più schifoso e umido di quanto non avesse immaginato.
Gli copriva il viso, fin sotto il mento. Poi la bocca. Poi eccolo!
Sembrò di scorgere qualcosa che poteva essere il suo libro nero e mentre finalmente si faceva in avanti per prenderlo qualcosa lo afferrò per la caviglia e lo portò a fondo.

28 giugno 2006

ARGENTO! (capitolo 34)




TIC TAC

In quel momento, mentre Aureliano Rubirosa cantava la sua lode alla rivoluzione, Vladymir Andrey Rostropovitch continuava ad osservare quella vecchia donna e gli sembrava sempre più evidente che malgrado lui non riuscisse bene a classificarla lei, al contrario, lo classificava benissimo e provava una profonda ostilità.

TIC TAC

Questo gli sembrava di udire e non sapeva dire se fosse il suo orologio da tasca o il cuore di lei che batteva placido e deciso.

TIC TAC

Sentiva, o almeno questo gli pareva, anche altri ticchettii. E ce n’erano alcuni che gli stavano più a cuore. Uno, per esempio, era quello della sua Lupita, che ora taceva e guardava senza capacitarsi di cosa fosse successo quando era stata ipnotizzata.

TIC TAC

Come le sorgenti corrono sotto terra, così in quei meandri nascosti ai più, in quel preciso momento scorrevano fiumi di passioni molto contrastanti.

TIC TAC
Oppure
PLINK PLINK

Gocciolava il soffitto di quei cunicoli abusati dalle infiltrazioni di un tempo inclemente. E nessuno pareva darsi pena per quella pioggerellina sotterranea.

TIC TAC

Aurelia pensava a quel forestiero come qualcuno che avrebbe portato dolore e malasorte. E, ne era certa, da lui si sarebbe dovuta guardare.

TIC TAC

D’altra parte Aureliano Diaz rifletteva su cosa fare di quella vecchia che adesso conosceva il loro segreto. Avrebbe dovuto metterla a morte?

TIC TAC

Questo fu l’ultimo, definitivo, ticchettio che udì Vladymir Andrey Rostropovitch, e a essere sinceri, lo udirono tutti, perché fu come un ticchettio amplificato proveniente dalle volte putride che reggevano le gallerie di quella miniera. TIC TAC fece, o TAC TAC o qualcosa del genere, un ticchettio sinistro e poi tutto esplose in un fragore inaudito e il fango e l’acqua e le pietre e il legno fecero poltiglia di persone e cose.


A vederlo da fuori quella scena terribile di una piana che scompare inghiottita da una voragine lo si sarebbe detto uno spettacolo di illusionismo.
Ma non era illusione quella marea di fango che sommerse Donna Aurelia e la trascinò per metri e metri. Sotto terra priva di conoscenza.
Ci furono una serie di crolli, uno dopo l’altro che seguirono a breve distanza e la marea scurastra che si impadronì dei cunicoli sembrava inarrestabile. Invadendo quel grande articolato labirinto di cunicoli e grotte che ospitava quasi una cittadina sotterranea.

Nitrivano i cavalli imbizzarriti e sfondarono staccionate e travi per cercare di non annegare.

E tutto accadde nel giro di pochi minuti: una rivoluzione idrogeologica che cambiò per sempre l’aspetto della Piana do Diablo nei pressi di Mammarranca.

Era notte fonda e le primi luci dell’alba che sarebbero spuntate di li a poco avrebbero illuminato lo spettacolo spettrale di una conca fangosa somigliante a sabbie mobili dai cui mulinelli era possibile riconoscere olivastri galleggianti, sino a poco prima profondamente solidi sulle proprie radici, e arbusti e poi dopo qualche tempo, arti e corpi umani e animali intenti a cercare di nuotare in quella mota viscida.

Poco distante il carro di Astor giaceva riverso sulla carrettera con una ruota spaccata e cominciava a muoversi anch’esso, inghiottito, letteralmente risucchiato, dal terreno che franava.

Alvino preso dalla foga di quel combattimento disperato aveva udito il fragore alle sue spalle ma era troppo occupato a cercare di negare un’evidenza alquanto dolorosa per capire cosa stava accadendo.
Non sapeva picchiare e se quella sequela di calci e schiaffi alla rinfusa gli dava l’idea che si stesse difendendo Elmer, a suo modo, gli spiegava che no, proprio si sbagliava, e che quella scarsezza di risultati lo avrebbe condotto molto presto alla morte.
Quando si fu stufato di quella specie di agitarsi piuttosto poco virile, Elmer gli assestò un diretto al naso.
E quel dolore zampillante che gli portò le lacrime fu l’ultima cosa che Alvino sentì prima di un CROK definitivo.
Astor a vedere che Elmer aveva spaccato la testa di Alvino con un sasso urlò. Era buio e non vedeva il sangue colare fuori dal cranio del suo amico ma aveva compreso benissimo che Elmer era passato alle maniere spiccie.
Cercò di fare l’unica cosa che poteva: attaccare. L’orecchio reciso gli provocava un dolore lancinante.
Raccolse le sue forze e si lanciò, cercò di montargli in groppa e cominciò a percuoterlo con i pugni al volto, sugli zigomi e sulle orecchie.

Elmer era piccolo e rapidissimo i suoi muscoli induriti da una vita rigida e da una condotta di strada.

Ragionava così: il primo era uscito definitivamente di scena, adesso l’altro e poi continuare la fuga. Non che fosse un piano pieno di raffinati dettagli tattici, questo no, ma aveva una sua efficacia, specie se si considera che un tale disastro naturale come quello che era appena avvenuto avrebbe richiamato centinaia di persone e perfino i federales.

Per lui, era chiarissimo, il rischio aumentava ogni istante che trascorreva in quel luogo. Doveva sparire al più presto.

Quello che non immaginava assolutamente di vedere fu, mentre si accingeva a stroncare la spina dorsale di Astor poco prima della fuga, una processione di fantasmi di fango provenire dalle viscere di quelle sabbie mobili.
Emergere e portarsi fuori, trascinandosi nel silenzio più totale e camminando alla ricerca di aria.
La terra era abitata da strani uomini talpa che avevano vesti e carni di fango?
Questo lo terrorizzò, e lo terrorizzò ancor più il constatare che anche i cavalli erano di fango poiché c’era uno smilzo che cavalcava lento e ieratico imprecando in una lingua che non aveva mai udito prima.

"A shaynem dank in pepek!"
ripeteva questo.

27 giugno 2006

ARGENTO! (capitolo 33)




C’era chi preferiva proseguire il proprio cammino da dove lo aveva interrotto la sera prima di addormentarsi e chi invece approfittava delle asprezze della vita per ripartire da zero.
Questo non era comodo e neppure rassicurante ma poneva nella posizione di vedere le cose dal basso.
Era una semplice regola che Don Erminio, su dottori, aveva imparato da ragazzo.
Da quando aveva studiato alla Sorbona, nella lontanissima Parigi.
Da quando aveva amato Jeanne, quella donna che si diceva amica di Toulouse Lautrec e che rideva come non ridono le donne.
Da quando, infine, credeva di avere imparato a camminare sulle sue gambe.

Al principio Erminio non era che un bamboccio. Aveva il privilegio di studiare lontano da dove era nato. E questo lo aveva inebriato. Lo rendeva euforico e pieno di sorrisi da cerimonia.
Viveva in quella che pomposamente definiva “la capitale dell’universo”. e respirava l’aria di quel “qualcosa che cambia” con lo sguardo rapace di chi pensa a come conquistare la sua fetta di vita.
Eppure sorvolava il mondo senza davvero osservarlo; lo vedeva, ecco tutto, ma non lo capiva affatto. Per lui i protagonisti di quello spettacolo chiamato vita erano qualcosa di poco dissimile da attori, o meglio burattini, di uno spettacolo per bambini come quelli che aveva visto nella sua infanzia paradorena.

Al café de Flor sfogliava svogliatamente un romanzo francese in voga quando lei fece la sua comparsa in compagnia di un amico comune.
“lei è Jeanne, aveva detto lui”
“un amica di Toulouse Lautrec”.
“amica o amante?” aveva chiesto in una delle tante uscite infelici che costellavano la sua vita. Lei non aveva risposto, si era soffermata a guardare la copertina di Madame Bovary e poi aveva detto: “non le serve a molto leggere Flaubert se poi fa delle domande del genere”.

Avevano riso. Anche se la risata di lui era imbarazzata e quella di lei sorniona. Il loro amico aveva colto una strana elettricità passare tra di loro e poi si era inventato un impegno improvviso per lasciarli soli.

L’amicizia a volte è il dono di un Dio generoso, lui di questo era certo. E amava Robert, quel suo amico nobile e “pieno di tatto”.
Passeggiando per i giardini di boulevard Saint Germain avevano parlato di filosofia, e del mondo che cambia e dei reciproci progetti.
“Mio Dio, Erminio, non avrà intenzione di vivere la sua vita da turista, spero…”’
“ e lui aveva capito più sul proprio conto, dopo quella frase, di quanto non avesse compreso in 21 anni di vita”.
“Perché cosa dobbiamo fare?”
“c’è una quantità di modi per rendersi utile”
Quella visione per la quale non c’è tempo da perdere sulle prime gli era sembrata così “provvisoria”, dava l’idea che fossimo di passaggio e dopotutto piuttosto indaffarati, e questo cozzava con la sua calma tropicale. Era un tropicalista che scopriva una realtà piuttosto semplice dopotutto, il mondo non è solo tropico.
Così si era laureato dopo qualche anno. Con lei era nato un amore di quelli famelici, che ti cambiano dall’interno. E lui brindava alla sua sorte delicata e fortunata bevendo Saint Emilion e pronunciando frasi celebri dei loro romanzi preferiti.

Chissà perché tutto quel passato remoto oggi faceva capolino.
Tra il sangue e quella carne recisa.
Usava il bisturi con perizia tagliando in orizzontale per liberare la freccia dal muscolo pettorale di Colmish. Era fortunato quell’uomo, la freccia aveva sfiorato l’aorta e si era piantata in quel corpo smisurato.

“Pochi centimentri e sarebbe morto dissanguato. Ma, evidentemente, non era ancora la sua ora…”

Sorrideva Don Erminio, ormai il tempo era trascorso sulla sua vita e le amarezze lo avevano, a dispetto di tutto, addolcito.
Immerso in quegli odori di alcol e di etere operava un uomo che non aveva in simpatia, con lo stesso scrupolo che aveva imparato ai tempi della relazione in Francia con la sua bella Jeanne.

C’è chi preferisce ricominciare dal giorno prima, lui aveva imparato che ogni giorno si deve ripartire da zero, per onestà, si era imposto quella disciplina da quando, molti anni prima lei lo aveva lasciato.

Fate bollire dell’altra acqua” disse a un attendente.
“Sì dottore”.

Buffo trovarsi a dare ordini a casa dell’alcalde. Lui che non era altro che un prigioniero politico.
Lui che non cercava altro che “volare basso”.
Di prendere la vita per quel tanto di sacro che questa contiene. Chiunque la viva, chiunque la impugni come un’arma, questa vita.

Quando erano dei ragazzi cresciuti e credevano di avere capito qualcosa e parlavano di progresso e di arte, di bellezza e perdono lui aveva avuto notizia della malattia di sua madre, lontano in Parador.

Sua sorella gli aveva scritto una lettera. "Vieni Mamma è molto malata, chiede di te". E lui di quella madre che lo aveva cancellato dalla sua vita, che se lo era dimenticato al deposito bagagli, un giorno che era distratta a seguire suo fratello minore, non aveva saputo che farne.
Sua madre era molto malata?
E allora? Dove era lei quando lui stava crescendo, quando lui aveva bisogno di sapere di essere amato?
Lei non c’era, semplicemente non c’era.
E lui era rimasto per tutta la vita lì, idealmente fermo ad aspettarla a quel deposito bagagli di Papassinas. Città che poi, cresciuto, aveva abbandonato per sempre, visitandola solo nelle rare emergenze, per questo o quel malato.

Aveva lasciato la lettera di sua sorella Tranquillina a marcire sul comodino. E sua madre se n’era andata con il desiderio di sapere che volto avesse oggi quell’ometto di suo figlio. Lui aveva fatto spallucce e continuava a crescere misurandosi con quell’avventura umana che era la vita nella capitale dell’universo.

Fino a quando Jeanne un giorno non aveva aperto la busta, per scherzo, e aveva letto due o tre righe. Poi turbata gli aveva chiesto: perché?
“Perché cosa?” lui aveva risposto.
“Perché non sei andato?”

Gli aveva spiegato cosa era per lui sua madre, qualcuno che lo dimentica a un deposito bagagli, qualcuno che vive distrattamente il suo affetto tutta dedita a suo fratello e alle sue fantasie melodrammatiche.
E lei, Jeanne lo aveva guardato con quello sguardo fatto di disprezzo, tenerezza e orrore e gli aveva detto addio.
Lo aveva lasciato per sempre.
Adesso era lui che la inseguiva e le chiedeva perché.
E lei non era neppure capace di rispondergli. Non sapeva come pronunciare quello che era davvero troppo evidente.
“Perché uno che non è capace di perdonare non sarà mai un buon dottore, non sarà mai neppure un buon essere umano. E certamente non potrà mai essere il mio uomo”.

Due righe sopra un tovagliolo che avevano chiuso le porte a ogni altra discussione.
Lui era rimasto tramortito e aveva preso a odiare. A odiare doppiamente sua madre, per non averlo amato a suo tempo e per avergli portato via l’amore di adulto, quello della donna che gli aveva insegnato a vivere.

Poi aveva deciso la più grande delle sue vendette ed aveva cominciato a "sentire". A sentire gli esseri umani, a studiare, a ricominciare da capo ogni giorno. Ed era diventato un grande medico, un medico amatissimo e partecipe, senz’altro l’uomo che avrebbe fatto felice Jeanne, che d’altra parte era solo un ricordo. Sbiadito dal tempo e dalle emozioni. Una ferita, una cicatrice nel suo corpo di uomo.

“Abbiamo fatto tutto il possibile, tra 3, 4 giorni sarà in piedi se è fortunato, tra quindici la ferita sarà rimarginata e tra un mese sarà guarito.”
“sempre se non insorgono infezioni, ma questo non è sotto il nostro controllo”. E aggiunse
“Oggi è stata una giornata dura per lui ma tra un paio tutto questo sarà, al massimo, un ricordo da raccontare agli amici”.

“il tempo è la migliore medicina” disse l’attendente medico che lo aveva assistito durante l’operazione.
“Già, già. Solo a volte, sembra che non passi mai”.
E chiusero la porta.

24 giugno 2006

ARGENTO! (capitolo 32)




Attaccò alle spalle con tutta la forza di cui era capace. E prese di mira il più grande dei due. Aveva bisogno del carretto per la sua fuga, il chico, e si comportava come un animale ferito e braccato.
Stringeva la testa di Astor, da dietro, con le due braccia e cercava di stroncargli il collo, con una mossa secca.
Frattanto il carretto continuava a filare sotto la pioggia per la Piana do Diablo.
Il cavallo ormai senza controllo andava come impazzito.
Ringhiava Elmer, e questo, di solito, terrorizzava le sue vittime. Alvino era imbambolato per la paura e vedeva Astor in difficoltà che cercava di liberarsi da quella furia che somigliava a un bambino. Che non era riconoscibile nel comportamento di un bambino. Ma che dopotutto, per le sue fattezze, era proprio un bambino.
Con il manico d’osso della frusta Astor colpì più volte all’altezza del volto di Elmer sino a sentirlo urlare per il dolore. Sentì del sangue colargli in testa e allentare leggermente la presa, il tanto sufficiente per farlo scivolare con violenza di lato.
E cadde battendo la fronte sul predellino, Elmer, ma si divincolò con un calcio dalla presa.
Poi gli fu sopra, ancora una volta, e spinse con forza e cattiveria i pollici nei globi oculari.
Astor cominciò ad urlare e Elmer a ringhiare sempre più.
Era un orgia disarticolata di suoni; una cosa che sembrava appartenere a un regno non terreno.

E Alvino finalmente sveglio, con gli occhi spalancati, vinse la sua paralisi e si buttò in soccorso dell’amico.
Cominciò a sussultare, Elmer, e si sarebbe detto che ridesse, ma aveva uno strano ghigno. Poi, quasi per giocare, prese la testa di Alvino e la batté sul fondo del carro
TUMP
TUMP
TUMP
Tre volte, fortissimo. Con l’intento di romperla. Astor non perse tempo e gli sferrò un pugno alla mascella. Elmer si fermò, sputò sangue e un paio di denti, sorrise e si lanciò sopra Astor. Gli morse un orecchio e lo strappò via. Sempre sorridendo, con il viso sporco di sangue.
Astor urlava ma ad Alvino non sembrò si sentire più nulla.
Nell’ultimo assalto si era slacciata la marsina di Elmer e qualcosa di scuro era caduto rimbalzando pesantemente sul fondo di legno.
Fu l’ultima cosa che vide. Distintamente. Sotto i suoi occhi increduli. Poco prima che il carro si rovesciasse.
Il taccuino nero custodito da sua nonna. Il taccuino segreto dei Picocca.
Non ebbe il tempo di porsi alcuna domanda perché la ruota sinistra del carro urtò violentemente un masso ai lati della carrettiera e i loro corpi furono proiettati nel fango, mentre il cavallo finalmente libero con quel che restava dei finimenti a penzoloni galoppava verso l’orizzonte.



Viaggiavano nella notte per le vie della città, il duca di porcellana e i suoi chicos, maledicendo quei cavalli e quel loro carro che si impantanava facilmente.
“Tempo della malora. Cavalli bastardi. Andate maledetti.”
“Sembra entrato in un fosso” urlava Gregory.
“Dannazione. Tutti giù, spingete! ”
E frustava con violenza il dorso dei due ronzini che facevano del loro meglio per trainare fuori il carro.
“che diamine sta succedendo? Si è aperta la porta dell’inferno qua sotto?”
“ No ci siamo signore.”
“Ah, finalmente!”
Ripartito il carro vedeva quella sfilza di ometti, bagnati e sporchi che cercavano di rimontare in corsa.
“Forza, che aspettate, volete rimanere a terra? Ha ha ha”
E si divertiva, il duca di porcellana, a vedere correre, lo sguardo disperato, i suoi chicos.
“se non riuscite a tornare sul carro è segno che non valete una cicca.”
Trovava che le difficoltà li indurissero e mostrassero loro la verità ultima che lui aveva imparato dalla vita: il mondo è un grande spettacolo di sopraffazione.
“Tenete bene aperti gli occhi, voi” intimava ai chicos.

Solo Greg sorrideva pensando al fatto che Elmer adesso era divenuto preda e nemico da cacciare.
Si sentiva appagato finalmente, appagato perché le sofferenze di un tempo stavano per finire.
Non ci sarebbe stata quella sensazione sgradevole che gli aveva divorato lo stomaco, notte dopo notte.
Non avrebbe più patito nelle serate di bruma, quando il duca raccontava la storia della sua vita, a constatare che era sempre ad Elmer che il duca si rivolgeva.
Gli abissi di quel dolore lo avevano segnato e portato a uno stato di perfezione nel borseggio che non avrebbe mai creduto di raggiungere. Si era cesellato. Con puntiglio e cura.
A sera si allenava allo specchio. Ossessivamente.
Fino al giorno che un click dentro il suo cranio di settenne gli disse quello che desiderava: “ora sei perfetto”. Questo fu quello che Greg udì.
E con questo, ovviamente, arrivarono le lodi e il rispetto.
Era arrivato, era “perfetto”. Però in fondo Greg sapeva, credeva di sapere, perfino meglio del suo padrone che lo aveva adottato ed educato dalla sua più tenera età, che lui aveva dovuto imparare, studiare, apprendere a costo di sacrifici, quello che per Elmer era invece del tutto naturale.

“Abbassa la testa Tobe”. Urlava il duca di porcellana. Non vedo. Dove si sarà cacciato quel bastardo? “

Ragionava a voce alta, il duca, come spesso faceva. Solo che adesso non mormorava, ma parlava a voce piena, urlando ai quattro venti le sue intenzioni.

I bambini erano vigili, con gli occhi puntati verso ogni angolo, ogni anfratto che avesse potuto celare il loro fratello ribelle. Colui che aveva rotto il patto. E Greg sapeva che quei chicos da adesso erano suoi. Feroci soldatini, sotto il il suo esclusivo comando. Niente, più niente da dividere con Elmer.
“Non c’è più Elmer, non c’è più nessun altro capo. Elmer è morto. Non lo sa ancora ma è morto. Ma si che lo sa sì, sì, lo sa benissimo.”

23 giugno 2006

ARGENTO! (primi 30 capitoli in pdf)

PLIN PLON

mi segnalano da più parti che non è sempre evidente dove il nostro server abbia depositato i capitoli di ARGENTO! .

Emicrania? Gomito del tennista?
Niente più problemi per l'avvenire. Da oggi la "igort pictures incorporated" è lieta di rispondere alle tue esigenze!
Niente venefico rossore o mal di stomaco:

qui

potrai facilmente scaricare i primi 30 capitoli di ARGENTO! in versione PDF o DOC.

E ricorda, leggere fa bene alla salute mentale, stimola l'appetito, aumenta la fertilità.
(Si ringrazia la Web Master (padrona del web) Susicca Cané per l'opera caritatevole).

PLIN PLON

ARGENTO! (capitolo 31)





A Mammarranca il tempo pareva ovattato e stanco. Quella pioggia sottile, che non aveva cessato per giorni e giorni, continuava a cadere leggera e soffocante e aveva cambiato le superfici di quella città, un tempo secca e screpolata, adesso viscida, quasi gelatinosa. Le stradine erano un pantano e spesso le ruote dei carri affondavano come se andassero sulle sabbie mobili.
A peggiorare la situazione il vento soffiava confuso spostando disordinatamente quelle masse d’acqua.
Si ballava una strana danza climatica, in quei giorni, una danza fatta di umido e caldo torrido.
Gli anziani, giorno dopo giorno, guardavano quel cielo quasi bianco e scuotevano la testa, e sorridevano; l’atmosfera era irrespirabile e molti malati gravi preferirono raggiungere gli antenati piuttosto che continuare a patire sulla terra.
A questo gli anziani davano un nome, la chiamavano “la gran reunion”. Ed era l’idea che le smisurate famiglie si riunissero finalmente, dimenticando per sempre i dolori di una vita di stenti.
“La grande riunone” avveniva quando diversi vegliardi della famiglia decidevano di morire tutti insieme. Cosa non rara in Parador, dato che laggiù la morte e la vita confinavano.

Fu così che, dalla goletta Simon Bolivar II, ormeggiata al porto di Mammarranca in attesa di ripartire per l’Europa, sbarcarono centinaia di topi. Attraverso quei pontili in legno ormai marciti, e giù per le gomene color del carbone, fuoriusciva una processione ordinata di ratti che si dirigevano risolutamente a terra, attratti dall’odore degli aranceti o della cannella o di chissà cos’altro, per poi sguazzare nel fango, giù per i vicoli deserti di Mammarranca.
Quella specie di mota animata, quadrupede e roditrice si diffondeva dappertutto, attiva e interessata a darsi da fare.

Dalle finestre della residenza dell’alcalde Don Erminio, su dottori, osservava lo spettacolo, non senza pensieri, poiché era chiaro che se la città fosse stata assediata da topi e sudiciume il rischio di epidemie si faceva sempre più concreto.
D’altra parte, malgrado la pioggia e il vento in quel cielo biancastro, volavano centinaia di gabbiani che adesso avevano preso ad abitare la città ben oltre le zone del porto, cercando cibo nei rifiuti e cantando alla loro maniera sgraziata in qualunque ora del giorno e della notte.
Accadeva sempre così in Parador, quando le carestie o la malasorte prendevano possesso dell’isola sembrava che gli abitanti divenissero esseri invisibili e incorporei e che le bestie fossero le vere e uniche presenze animate del luogo.

Poco distante dalla città, nei cunicoli sotterranei della vecchia miniera d’argento ormai abbandonata Donna Aurelia venne fuori dal suo nascondiglio rivelando a tutti la sua presenza.

Incurante di quello che era accaduto, della seduta di ipnosi, del forestiero da impiccare, dei grandi discorsi che aveva udito lei continuava a insultare suo figlio Ramon, il redivivo.
“Traditore, egoista. Irresponsabile!”
E lo incalzava la vecchia, con una furia senza età, una furia incomensurabile.
“Un bambino in difficoltà, hai lasciato, un bambino orfano di madre. L’hai lasciato a se stesso, come un bastardo della peggiore specie.”
L’uomo indietreggiava e sul suo viso si era dipinto un sorriso ebete.
“Solo la suo destino.”
“madre, io…”
“Taci, tu per me sei morto. Morto per sempre, razza di figlio degenere”.

“Basta donna!” intimò Catarino, detto El Gato, Generalissimo della confraternita dell’argento.
E lei, Donna Aurelia, si fermò e lo guardò per un paio di interminabili secondi. Pareva che si fosse accorta di lui in quel momento. Osservò attorno, lungo quelle catacombe, i corpi di quelle decine , centinaia, di uomini che la fissavano a loro volta, immersi nella penombra.

“smetti con i tuoi schiamazzi.” Riprese El gato con autorevolezza.
La sua voce baritonale rimbombava conferendo un tono quasi innaturale alla conversazione.
“Si tornerà alle nostre famiglie quando sarà tempo.”

E si permise il lusso di una considerazione

“Tu non puoi capire, cervello di femmina”
“ Adesso sei al cospetto di una armata rivoluzionaria. Che ne sai tu dei motti di Puerto Oruro? Della rivolta di Coloriu Arrubiu?
Siamo in guerra vecchia, lo capisci? In guerra.”

Vladymir fissava Donna Aurelia con un certo divertimento. E pensava alla ricchezza del destino. Alla mutevolezza del fato, all’ironia del suo Dio.
Solo qualche minuto prima rischiava di finire impiccato e adesso una donna minuta con un occhio piagato affrontava con una certa spavalderia il capo dei rivoluzionari.

Intervenne Aureliano Rubirosa, le sue maniere miti erano leggendarie come il suo coraggio. Se quella armata di rivoltosi fosse mai riuscita a rovesciare la dittatura di Fulgenzio Villa Rubirosa avrebbe fatto carriera politica certa. Tali erano il suo carisma e le doti di mediatore che tutti gli riconoscevano.

“Apprezziamo la tua forza, donna. E apprezziamo come sai difendere i tuoi valori.”
E aggiunse “ma qui, vedi, non ci sono solo i valori tradizonali in ballo.”
Scrutò le razioni dei presenti e poi riprese il suo discorso, pacatamente.
“Il malgoverno sta sfiancando le nostre vite. Noi vogliamo che venga riconosciuto il lavoro, distribuita la terra, vogliamo riconquistare la dignità perduta.”

“Per un momento io dico che è ora di dimenticare i valori tradizionali. Mogli, figli, famiglie.”

“Merda” questo fu tutto quel che rispose Donna Aurelia.

ARGENTO! (capitolo 30)




Quando, una volta risvegliato, il duca di porcellana realizzò quello che era accaduto ne fu così sconvolto che rifiutò perfino la colazione, cosa che non era accaduta a memoria d’uomo.
Farfugliava assorto.
Rimase a bofonchiare in quella strana situazione di sospensione di quando pensiamo senza realmente pensare, con la testa che ronzava e girava a vuoto.
Poi le mani minuscole dei suoi chicos che sparecchiavano lo risvegliarono da quello stato di torpore. E, ancora completamente assorto, fece chiamare Greg.
Era curioso di capire cosa mai avesse potuto portare Elmer lontano da lui. A fare un gesto tanto sconsiderato che, era chiaro, sarebbe stato punito con la morte.
Perché rischiare tanto? Elmer era stato educato a non correre rischi inutili, era stato educato all’arte del misurare energie a soppesare le conseguenze di ogni gesto stolto. Ed era un asso in questo, un campione assoluto.
Ma allora perché?
Perché?
Si dannava, ma non riusciva a venire a capo di questo enigma.
Elmer che era uno dei due capi bambini, uno dei più fidati, dei più feroci, che ora, all’improvviso, perdeva la testa e infrangeva la fratellanza. Eppure gli piaceva moltissimo essere uno dei due capi. Lo aveva inorgoglito da sempre essere al comando, potere disporre di quel minuscolo potere sul campo.

Greg, che lo conosceva bene, che era intelligente e sottile, che era sempre in competizione con lui. Certamente aveva capito, ma sì, senza dubbio.E certamente prima di lui,del duca.
Quando Elmer stava elaborando lo si sentiva nell’aria. Bastava saper guardare. E Greg, chiaro, era uno che ci vedeva benissimo. Queste cose le fiutava a distanza.

“ma allora perché non me ne hai parlato?” chiese all’improvviso il duca di porcellana.

E Greg, che lo fissava, spaventato, senza veramente capire, per la prima volta, senza aprire bocca, tentennava,.

Perché lo spettacolo del duca di porcellana che non si lavava e non faceva colazione era mostruoso e insopportabile; un’abominevole infrazione di quella regola rassicurante e implicita.
Quella regola della “scienza” che diceva senza equivoci di sorta che in tutto questo vagabondare i chicos avevano “casa” nelle loro abitudini. Nella cadenza regolare di quelle abluzioni e colazioni reiterate, ovunque si trovassero, qualunque cosa accadesse.


E adesso invece qualcosa di inaudito era accaduto, al punto che Norbescu ne era turbato e i suoi feroci demoni bambini, malvagi in miniatura, e apparentemente senza cuore ne pietà, erano turbati a loro volta.

“Perché non me ne hai parlato dannato moccioso?”
“Di cosa?”
“del fatto che Elmer tramava qualcosa, idiota”.
“Non lo sapevo”.

“Balle!”
E prese lo scudiscio, una zirogna per cavalli che aveva usato diverse altre volte, ma mai su Greg, che era un leader, un delinquente nato, dotato di talento e malvagità tali che lui stesso se ne compiaceva apertamente.
Questo gesto ferì i chicos più ancora che se li avesse frustati uno per uno, poiché fu chiaro a tutti il terrore del disonore che Gregory portava nel cuore. Era atterrito e offeso, e tremava ma fissava con sguardo di disprezzo, il piccolo furfante.
Si aspettava il segno di una frustata violento e definitivo ma almeno risolutore, dato che quella tensione era a tutti insopportabile.
E invece nulla, rimase sollevato quando il duca di porcellana lasciò cadere la zirogna per terra e si abbandonò sul letto disteso supino.
Pareva quasi singhiozzasse.

A poco a poco la stanza si svuotò fin dell’ultimo marmocchio. Non fiatavano, ma era chiaro che qualcosa si era spezzato per sempre. Elmer aveva rotto la catena della fratellanza e i giorni di solito lievi e giocosi, a suon di risate e furfanterie, si sarebbero appesantiti di un fardello imperscrutabile.
Era questa la certezza: il duca meditava qualcosa, ma loro non sapevano dire cosa fosse.


“Oste! Un’altra birra.”
Al piano di sotto della taverna quel che restava del gruppo di bracconieri cercava di ritrovare lo spirito perduto. Non erano più in tanti perché con l’attacco di Astor e la sommossa dei campesinos diversi bracconieri avevano fatto le valige e si predisponevano a partire con la Simon Bolivar che, tempo permettendo, salpava la notte seguente.
Ma tra i superstiti, adesso, nell’attesa di conoscere la sorte di “Sir” Colmish avevano preso coraggio e si erano proposti come capicaccia Leonard Donne e Harvard Muybridge jr, l’avaro
Non che fossero più forti o più abili a eleborare più di altri una strategia; avevano solo una certa parlantina e molta voglia di esercitarla. Convinti come erano che la realtà anche più spaventevole se definita, inquadrata con le parole diventasse, tutto sommato, cosa accettabile.

"Nella tradizione dell’est” diceva Leonard Donne con una certa sicumera dottorale, “quando muore un sospetto licantropo lo si sepellisce a pancia in giù”.
“a pancia in giù?”
“esattamente”
“dopo quaranta giorni si dissoterra la cassa e la si apre per verificare. Se il corpo è di fianco è segno che il corpo dell’uomo lupo segue il ciclo lunare”.
"Ruota con il ruotare dell'astro intorno alla terra, capite?"
“ah”.
“A tale scopo si è presa l’abitudine di infilare un paletto sul cuore e fin sul fondo della cassa, onde evitare che il corpo possa seguire l’influsso della luna”
“un paletto come per i vampiri?”
“esattamente”.
"I proiettili d’argento sono elementi dolorosi, essi trasmettono l’energia insopportabile per l’uomo lupo ma il paletto che inchioda il corpo al fondo della bara determina morte definitiv... "

Quella sottile e dotta conversazione fu interrotta da un rumore sordo di ferraglia proveniente dalle scale.

“Oste della malora fai preparare un carro. Stanotte usciamo”.Urlava il duca di porcellana. I chicos e Norbescu erano scesi come una furia.
“Hai un carro da affittarmi?”
“Un carro?”
“Si capisce, non sei mica sordo, no? Un carro ho detto”.
“Un carro? Purtroppo no. Non credo…”
“Bada oste, non sbarrarmi il cammino altrimenti te ne pentirai…”
“Io ho un carro per voi!” disse uno dei bracconieri.Ve lo vendo per cento pesos, me ne disfo perché domani parto per sempre da questa terra maledetta”
E si dispose a stringergli la mano.
“Piacere Dwaine, Dwayne Wright. Felice di potere aiutare un compatriota.”

E porse la mano al duca di porcellana che la strinse di malavoglia solo per potere poi stringere le briglie di quel carro e scatenarsi nella più feroce caccia all’uomo cui avesse mai preso parte.
“Cento soldi per il carro a cui aggiungiamo pure duecento, per due cavalli. Concludiamo che ho fretta”.
E si allontanarono, quei gentiluomini, nella notte.

“Elmer, sei morto, piccolo mio”. Queste furono le ultime parole che Don Juan gli sentì pronunciare quando montò sul carro trainato da due cavalli insieme ai suoi chicos. E tutti notarono, per la prima volta, che non avevano affatto l’aria dei saltimbanchi. Non quella volta.

15 giugno 2006

ARGENTO! (capitolo 29)




Gli piaceva dormire al tepore del camino. Ogni sera si rannicchiava sopra un cencio che fungeva da materasso. Elmer non aveva compiuto dieci anni e già fumava come un turco. Quando si batteva o doveva pestare una vittima destinata al furto era efferato. Mirava a fare male, e a fare in fretta. Non c’era spazio per sentimentalismi di sorta. Lui era una macchina violentissima in miniatura. Ne aveva inviati diversi all’ospedale, e come cavaocchi o strappaguancie era temutissimo perfino dalla sua stessa compagnia. Addestrato ottimamente era l’orgoglio del duca di porcellana, suo padrone, ed esibiva fortissime qualità di mangiafuoco, e doti leggendarie nella sua attività segreta di borseggiatore.
E, come detto, nessuno gli poteva tener testa per crudeltà e finezza se non Greg lo scozzese, più grande di lui di un anno appena e capo con lui del gruppuscolo dei chicos itineranti.
Quella sera, ispirato forse anche da quanto mangiato a cena, Elmer sognava cose variopinte, colori che gli ricordavano i cieli di quella terra seccata dal sole dove adesso si trovava. Non che gli piacesse il Parador, lui era nostalgico delle brume di’Inghilterra. Che quelle erano le atmosfere nelle quali era nato.
Brume e freddo. Tanto diversi dai caldi torridi e ventosi dell’America del sud.

A ogni modo nel sogno c’erano pesci, tanti pesci di tutti i colori, che nel suo codice significava abbondanza. Ed era inconsciamente soddisfatto, dato che Elmer aveva una sua nuova, piccola, proprietà, il libro nero dei Picocca.
Mentre gustava questo sogno di abbondanza e la soddisfazione di sentirsi proprietario di qualcosa (grande infrazione della “scienza” di Norbescu) si voltò nel sonno sino a prendere la posizione supina, scoprendo dunque la refurtiva.
Era silenziosa la stanza del camino in quella locanda, e buia, se non fosse stato per la luce fioca del camino. Ma mentre tutti dormivano una mano sembrava animata da desideri altri che non il riposo. Una mano magra e abilissima, si muoveva sinuosa attraversando il buio per giungere a portata di quel prezioso taccuino antico.

Lo afferrò e lo portò a sé, dolcemente.

E tutto sembrava compiuto e tranquillo sino a quando fu chiaro che invece no, stava per cominciare il finimondo.
Elmer spalancò gli occhi.
E si accorse di essere stato derubato. Si voltò alla ricerca di Greg, poiché era chiaro, quello era un colpo da maestro. E solo Greg poteva esserne capace. Senza neppure chiedere spiegazioni lo attaccò con un pugno alla bocca e poi gli montò sopra, a cavallo, sul ventre, per strappargli il labbro.
Era feroce, come si è detto, e accanito lottatore, di quelli che non mollano la preda se non l’hanno sopraffatta totalmente. E così cominciò una lotta forsennata all’ultimo sangue. Proibitissima dal duca, il quale però ronfava sonoramente nella stanza di fianco.

Fu chiusa la porta è la rissa deflagrò. Ci si picchiava selvaggiamente e a vederli da lontano quei cuccioli di uomo tanto simili a delle belve li si sarebbe temuti più che compresi, fuggiti più che abbracciati.

Strappato un lembo di carne dal polpaccio di Greg, Elmer con la bocca ridente e sporca di sangue di buttò verso la porta di ingresso di quella doppia stanza. E cadde a precipizio per le scale serrando sempre in mano quel taccuino finalmente ritrovato.
Non fece a tempo a rotolare sul pianerottolo che Don Juan , il locandiere accorreva per sedare la rissa; Elmer se lo trovò dinnanzi e non poté far altro che attaccarlo con un manrovescio.
Malgrado la grande differenza di statura Don Juan vacillò e cadde riverso, semisvenuto. Elmer guadagnò l’uscita. Tirava un forte vento che scuoteva gli alberi e portava frustate di pioggia.

Ed Elmer si allontanò nella notte, lontano dai chicos con cui era arrivato per difendere quella cosa che aveva conquistato e difeso a prezzo della sua stessa fratellanza. Era solo adesso, solo nella notte, e gli faceva uno strano effetto. Dato che non ci era per nulla abituato a correre senza il riparo e "la scienza" rassicurante della sua famiglia adottiva. Era un lupo, pronto ad attaccare, un pupo solitario che custodiva il suo tesoro. E non sapeva perché era prezioso questo tesoro ma era suo, la sola cosa che avesse mai posseduto. La sola cosa degna di essere difesa.

Prese la strada della piana e incrociò un carretto, con due ragazzi, che si allontanava dalla città. Lo vide giusto in tempo e balzò su quel carro che correva nella notte sotto la pioggia.
E se doveva uccidere per salvare la sua fuga lo avrebbe fatto.
Che Elmer stava assaporando quella sua nuova libertà e i due ragazzi sembravano dei bambocci rispetto ai chicos con i quali era cresciuto.

14 giugno 2006

ARGENTO! (capitolo 28)



Vladymir aveva visto nello sguardo di Lupita la sua infanzia e il dolore che la segnava. Cicatrice dopo cicatrice, giorno dopo giorno la sua vita era stata sfogliata come si sfoglia una rosa. Un petalo dopo l’altro si erano alternati momenti dolci e altri amari, che cadevano al suolo come fogli di un calendario immaginario.
Un giorno segue l’altro sino a quel terribile mattino di primavera del 1894. Che giorno era? Il 12 aprile. Lupita ha sedici anni appena compiuti, attraversa la strada. Sta andando a visitare, in compagnia di suo fratello, il giardino botanico.
Le piacciono gli alberi, le sono sempre piaciuti e sogna un avvenire come guardia forestale. Le piace anche studiare, imparare, e quindi va, finalmente, ad ammirare questo giardino botanico dopo settimane di suppliche ai genitori; loro non sono veramente anziani, ma non frequentano volentieri la città, che vivono con il timore dell’inconosciuto.
Uomo e donna di altri tempi i coniugi Maraboto preferiscono la giungla a Mammarranca, che tale a loro appare la cittadina, una giungla meccanica piena di diavolerie.

Ma non si sentono di imporre la loro visione antidiluviana ai figli. Raccomandano prudenza, prudenza: la città è pericolosa.
Ma il destino è crudele e se ne infischia.

Così vediamo Lupita che attraversa la strada. In quel mentre passa un drappello di scorta alla carrozza del giovanissimo nuovo Alcalde, appena insediato.

Lui nota la giovane Lupita e chiede al suo attendente: “chi è quel bocciolo in fiore?”
L’attendente risponde: “è una semplice contadina della piana poco distante, Eccellenza.”
L’Alcalde appena insediato pregusta gli abusi di potere che potrà concedersi a piacimento. La fa arrestare con un pretesto e la violenta per giorni e giorni.
E’ il 1894.

Cosa faceva in quell’anno Vladymir Andrey?

Questo si domandava leggendo il passato di Lupita nel nero dei suoi occhi.
Scorrono i giorni, i mesi, gli anni. Tanti anni prima, nel 1872 Vladymir, il 13 di maggio, nasce.
Poi, attorno ai sei anni, i primi passi nel mesmerismo. L’educazione precoce del padre, attento adepto e fine esoterista.
1884, a docici anni Vladymir è un fenomeno conosciuto in tutta Europa, lo chiamano “wunder jung” è il mesmerista della nobiltà.
Nelle sue vasche ovali immerge uomini e donne dell’alta società. La miscela è nota alla scienza: acqua, sabbia, frammenti di vetro, zolfo e limatura di ferro a cui presto sostituirà una più versatile polvere d’argento.

E’ un successo sfolgorante.

WUMMMMMP!

Sedute interminabili accompagnate da un quartetto d’archi, che strapazza di preferenza Mozart. E poi le celebri barre d’argento che attraversano la vasca toccando il corpo dei pazienti. E ovviamente il giovane, giovanissimo, Vlad (wunder jung) con la sua bacchetta che dirige la seduta, predispone il contatto, stabilisce lo stato di catarsi animale e consente la libera circolazione del fluido.


FLLUUUSSSSHHHHH

Al ritmo di quel fluido fioccano urla isteriche, abbandoni, svenimenti, sonni logici e perfino passioni.

Una giostra di passioni che rimane a palpitare, come pesce pescato di fresco, nei cuori delle pazienti anche dopo le innumerevoli sedute.
Un damerino fascinoso e seducente all’età di dodici anni, ecco quello che diviene “wunder jung”.

Lo sguardo è già intenso, irresistibile, anche se manca di spessore. A quello sguardo rimane incollato quello di lei, l’ottuagenaria Baronessa Bertha Von Kushner, futuro premio nobel.
Che lo ama appassionatamente nonostante l’immensa differenza di età. Ricambiata, finirà per barattare la giovinezza di Vladymir, e una innocenza ormai perduta per sempre, in cambio di una fortuna materiale. (L'amore è metafisico ma il corpo apprezza i piaceri terreni).
In punto di morte gli sussurra con voce vellutata, di fronte a un notaio:
“Ti nomino mio erede universale”.
Ed esala l'ultimo respiro, felice dell'opera di beneficenza.

Giovane, desiderato, ricchissimo. Vladymir Andrey cavalca il suo tempo e la steppa di zecchini come fosse su un cavallo a dondolo.
"A shaynem dank in pepek!" Pronuncia per la prima volta a un banchetto. Canta, gioca, ride, galoppa. Hop.
Tintinna l’argento e l’oro nelle saccocce del giovane rampollo della dinastia Rostropovitch.


Cavalli a dondolo e mimose sono un ricordo dell’infanzia ormai dimenticata.
Liberata, in seguito a un’azione di forza di un gruppo di campesinos capeggiati da suo fratello, Lupita fa ritorno a casa. Ma non è più lei. Non la riconoscono le amiche, né, d’altronde, il fidanzatino, che si impicca per il dolore.

Indurita dall’esperienza del rapimento si lascia andare a una profonda depressione. Diventa abulica. Passa il tempo e lei lavora, infaticabile, sui campi, e non parla con nessuno.
Nessuno la avvicina d’altronde perché si comporta stranamente, ha l'aspetto di un animale selvatico: capelli lunghissimi e ispidi, e si lava di rado.
Così la bellezza sfiorisce presto; già due anni dopo sembra solo un ricordo dei bei tempi andati.
TIK TAK. Compie diciotto anni nella solitudine completa, vuol solo una cosa; essere dimenticata.

CAdere nell'oblio. DI-ME-NTI-CA-TA
Ma suo fratello non demorde, lui, ha capito, e non la dimentica.
Quel giorno, per il suo compleanno, le regala un arancio.

Un arancio.

Semplice, poroso, rotondo. Lei lo guarda e sorride, persa nei suoi pensieri.
Un arancio.
Somiglia a cosa? Alla sua vita probabilmente.
Spicchio dopo spicchio lo sfalda, assapora, riscoprendo, nascosta tra le pellicine bianche, una piccola felicità.
Canticchia Lupita.
Tra lo stupore generale. C'è chi la spia per vedere se è vero.
Canticchia. Mentre mangia quell'arancio.
Per qualcuno esiste, nonostante tutto. Per qualcuno è ancora una persona.
E lei lo assapora come un affamato che con quel cibo sembra ritrovare la vita.
Uno spicchio dopo l’altro. La vita.
La sente pulsare, così le sembra.

A lui invece sembra tanto lontana, la vita. Eppure nel 1896 (mentre Lupita ha 18 anni) lui ne ha appena 24 ; alle arance Vladymir è allergico, ma non altrettanto al gioco d’azzardo.
Lascia la famiglia, che non lo capisce e si perde in una vita dissennata, fatta di vizio e perdizione.

Scommetterà forte e perderà tutta la sua fortuna. E' allora che ha inizio la sua vita di picaro.
A una creola, Tale Morita Vele, Vladymir Andrey deve l’amore per la letteratura. Notti d’amore a leggere Omero. Stregato come Ulisse dalla maga Circe.

Come stregato si sentiva adesso davanti a Lupita, quella donna fortissima e debole, che sfogliava com un libro aperto, talmente vulnerabile, in fondo, e per lui, proprio per questo, desiderabilissima.

Schioccò le sue dita e lei aprì gli occhi, con uno sguardo perduto e antico che fece un solco profondo e indelebile nel cuore di lui. Proprio mentre l’eco di uno schiaffo rimbombava per la grotta e una voce di vecchia diceva “brutto bastardo figlio di una cagna”.

12 giugno 2006

ARGENTO! (capitolo 27)




L’alcalde era febbricitante da due settimane a causa di una minuscola infezione tenuta sotto controllo.
In quella sua odiosa prigionia Don Erminio su dottori combatteva con il tempo e con le sue tensioni. Aveva ascoltato talmente tante volte quei dischi banali sino a rigarli e renderli quasi un fruscio indistinto.
L’alcalde delirava a suon di marcette militari e di musica marziale, alternando sproloqui egotisti a fasi di gelatinosa lucidità.

“Che ore sono dottore?”
“Le 11 e mezza.”
“ E’ giorno o notte?”
“Notte”

Giocava a scacchi con sé stesso, Don Erminio. L’ennesima partita vinta con una variante della mossa del barbiere che aveva imparato da bambino.

“ Lo so, vorreste andarvene, ma non è nelle cose.”
“finirà questa febbre fastidiosa?” chiese l’alcalde con un filo di voce.

“finirà”
“Siete un uomo consumato ma ce la farete anche stavolta.” Rispose svogliatamente mentre concludeva la sua partita.

“Lo so cosa pensate dottore. Voi rivoluzionari da operetta siete prevedibili. E per questo che non mi sono mai fidato. Un uomo prevedibile sa essere pericoloso, se prova paura.”

“E’ da tanto che non provo paura Don Ramos, lo sapete? “
“Non siate ridicolo, fossi in voi non farei tanto lo smargiasso, potrei farvi pentire di certe affermazioni.”
“Dopo tutti questi anni di malefatte non siete ancora stanco Alcalde?

“Stanco di cosa? Di vivere comandando?
“Vi sarà marcita l’anima”
“Mi fanno ridere le vostre superstizioni. Lo sapete dottore? Al lusso di una religione preferisco l’agio di una vita terrena senza miseria.”

I parrocchetti dell’alcalde erano addormentati. Erminio, su dottori, si era curato di loro scrupolosamente durante la malattia dell’alcalde, per scandire i tempi di quelle giornate interminabili aveva, ogni sera alle 9, coperto la gabbietta. Era segno che un’altra giornata se ne era andata. Non rimaneva che mangiare quella cosa che il cuoco militare chiamava cena, e attendere il sonno, ammazzando quelle ultime ore con una partita a scacchi. Ma il sonno, tuttavia, spesso tardava ad arrivare. Ed Erminio attendeva al buio, sdraiato nella sua branda di fortuna di fianco al soldato di ronda, che non gli rivolgeva la parola.
Tendeva le orecchie e gli sembrava di udire le urla dei prigionieri sotto tortura. Allora un dolore sordo gli serrava i visceri e lo teneva insonne a danzare con i ricordi per ore e ore, al suono della pendola del 700. Sentiva i brividi attraversargli la schiena e capiva di avere mentito, perché era proprio chiaro, chiarissimo: aveva paura. Una paura sconfinata.

Fu poco dopo quelle parole sciocche scambiate per orgoglio con l’alcalde che si udirono delle urla concitate e perfino degli spari poco più in basso nella strada.
Si alzò di soprassalto dalla branda e si affacciò alla finestra, appena in tempo per vedere un carro guidato da due ragazzi scomparire in fondo alla strada. Due federales a cavallo si erano lanciati all’inseguimento.
Gli altri formavano un cappannello proprio sotto la finestra dell’alcalde. Trafficavano attorno a due corpi buttati in mezzo al fango. Uno di loro fu caricato di peso.
“Ancora respira”
“Al secondo piano presto”.

E chiuse le imposte ben sapendo che di lì a poco sarebbero venuti a chiamarlo. Aveva riconosciuto il volto inconfondibile di uno dei bracconieri. Sembrava conciato male dato che aveva una freccia piantata in pieno petto. Si lavò la faccia e aspettò che quello scalpiccio militare neppure tanto marziale si avvicinasse alla porta e bussasse.

TOK TOK

“c’è bisogno di voi, un’urgenza dottore, sempre se potete rispetto alla condizione di salute di Sua eccellenza l’Alcalde, signore.”
“L’alcalde può attendere. Non ha bisogno di me adesso.” E sorrise.

Non aveva mai provato simpatia per un federale, ma quel capitano giovane e compito che osava contravvenire agli ordini egoisti ed esclusivi dell’alcalde, semplicemente perché un’altra vita era in pericolo, lo fece tentennare, per un attimo.

“Diamoci da fare” disse mentre si preparava a scendere al piano inferiore con la sua borsa di cuoio piena di ferri.

“acqua calda, mi serve molta acqua calda e un infermiere che mi assista.”
Non aveva simpatia neppure per i bracconieri inglesi eppure quella volta si sentì grato di potere esercitare la libertà che il suo lavoro gli consentiva, quella di non distinguere tra buoni e cattivi, simpatici o antipatici.

“Magra consolazione, sto davvero invecchiando”.
E queste furono le ultime parole che pensò consapevolmente, prima di immergersi in quella operazione difficile.

11 giugno 2006

ARGENTO! (capitolo 26)




Decine e decine di uomini, centinaia probabilmente. Molti dei quali scomparsi da tempo, dati per morti o sepolti nelle celle del governatorado.
Questo vide Donna Aurelia una volta che ebbe attraversato il cunicolo 7.
Là dove diverse gallerie confluivano gli ex minatori avevano scavato uno spiazzo. Puntelato a dovere si era ricavata una piccola piazza nella quale si svolgevano assemblee o publiche discussioni.

C’era Catarino Diaz, che aveva lasciato 2 figlie e una vedova in miseria.
C’era Alonzo Ramirez, che il padre aveva creduto morto 2 anni prima.
C’era Annibal Castro, il bello, che tutti, ma proprio tutti, avevano pianto perché era ancora vergine quando fu portato al plotone d'esecuzione.
E c’era una quantità di persone che Donna Aurelia, man mano che osservava riconosceva non senza stupore. Era un consesso di fantasmi, tutti vestiti di banco e tutti riuniti per quella che, non senza ironia, veniva chiamata la "Confraternita dell'argento".

Anni di dittatura feroce avevano richiesto una strategia estrema. Uomo dopo uomo, valoroso dopo valoroso; si era formato un gruppuscolo di scampati. I primi erano stati Catarino Diaz e Annibal Castro, il bello, che avevano rinunciato a malincuore alle loro famiglie per vivere quella vita clandestina capeggiando una rivolta che aveva deflagrato in tutta la piana, estendendosi alle vicine Papassinas e Coloriu Arrubiu.
Mammarranca era divenuta il simbolo di una lotta caparbia e organizzata che metteva in difficoltà le autorità costituite.
Vivevano come talpe, in quei cunicoli, elaborando tattiche di guerriglia spicciola.
Creando le premesse di quel disordine che stava alimentando la rivolta di speranze e sogni di cambiamento.
E una mossa dopo l'altra i campesinos avevano mostrato la loro forza.
L'Alcalde aveva riferito al Governatore, e questo al dittatore.

Cosa stava accadendo? Occorreva dare un monito.

Catarino era stratega militare di prim'ordine.
Unico sopravvissuto alla purga dei sedici era stato perfino sepolto vivo. Poi e curato dai campesinos della piana. Diventato un simbolo era chiamato con un nomignolo. El gato.
A significare le sette vite di cui Catarino certamente godeva.

Quelle persone, era chiaro da come trattavano con gli altri, erano capi, di una bizzarra confraternita.
Ora assistevano alla scena di una donna bellissima e apparentemente addormentata in piedi e di un uomo che le parlava. Aveva modi suadenti ed era straniero. Questo era evidente. Si vestiva come solo i gringos sapevano fare. Con quelle tenute da damerino che i campesinos guardavano senza invidia alcuna. Eppure non sembrava un latifondista.
E donna Aurelia fu colpita dal suo accento duro e strambo.

Cosa dicevano? Molti ridacchiavano maliziosamente.

"Potrei chiedere a Lupita di baciarmi. Voi lo capite, adesso sarebbe in mio pieno potere eppure non lo farò. Nossignore, non mancherò di rispetto a questa donna, abusando del mio potere su di lei. "

"Nel suo viso io vedo il viso dei suoi morti."

Si Passò il pollice sulle labbra, un gesto che faceva quando era molto concentrato. E che aumentò l'attesa degli astanti.
"Vedo il volto di una donna. Bellissima come lei. E' alta e ha un leggero segno di una cicatrice all'occhio sinistro."

Nelle catacombre della miniera cominciò un brusio sommesso.

"Una caduta da cavallo da bambina, credo."
Il brusio aumentò.

"Questa donna è sua nonna. Sua nonna Angela, che aveva il suo stesso sguardo e il suo stesso carsima e che suonava uno strumento ad arco.
E tutti dissero
OOOHHHH
Perché era vero, verissimo. Dato che Donna Angela Maraboto era una violoncellista leggendaria e nella prima metà dell’ottocento, quando era ancora giovane, partì per il nord America a tenere dei concerti.

"Potrei dirvi che vedo il volto di uno zio morto di tifo, che aveva una fidanzata di nome Lola."
E tutti ancora una volta dissero
OOOOHHHHH
Perché era vero, verissimo che lo zio compianto di Lola, nome Ruggero Maraboto, era vissuto e morto giovane. Seguendo di pochi anni la sua amatissima Lola.

"E potrei ripetervi, egregi signori, che io ho un patto con il mio Dio, e che in questo patto ci sono campane che devono suonare per annunciarmi la mia morte."

Prese tempo e attese.
Trattenne il fiato e poi disse accarezzandosi distrattamente la testa all'altezza del bernoccolo che Lupita gli aveva provocato poco prima.

"E io non sento nessun dannatissimo suono che mi annuncia la mia morte imminente.
Dunque signori se volete impiccatemi subito. Ma sappiate che volteggerò dalle vostre parti e non vi lascerò più una sola notte tranquilli.
Non per vendetta, ma perché il mio Dio si arrabbia moltissimo se io contravvengo ai patti con lui. E voi ne sareste responsabili, in questo caso."

Era, di tutti gli spettacoli di eccentricità varia che aveva svolto negli ultimi anni, il più riuscito. E senza dubbio il più sentito.

La piccola folla cominciò ad applaudire. E Catarino Diaz, detto El General prese la parola.
Ringraziò il forestiero e disse che era colpito. Non sapeva se credere alle sue facoltà medianiche. Ma credeva al potere del ridere. E quel dannato forestiero aveva fatto ridere tutti. Sino alle lacrime. E aveva portato un bene prezioso: il buon umore. E dunque era benvenuto.
E che non volevano, i campesinos, scontentare in alcun modo il Dio del forestiero, né tantomeno il loro, e che gli spiriti riposassero in pace. Amen. Loro non ne avrebbero creato un'altro impenitente.

E fu dunque questo il modo in cui Vladymir Andrey Rostropovitch si salvò l'osso del collo e riprese possesso pieno delle sue colt e dei suoi libri e del suo fido compagno quadrupede nominato Herr Doktor.
"A shaynem dank in pepek!"
Sveglio Lupita la bella, la quale si trovò in mezzo alla piazza con la sensazione di essere appena tornata da un lunghissimo viaggio in una dimensione sconosciuta. E aveva negli occhi il velo di un sonno millenario.

La vecchia Aurelia Picocca aveva vissuto in mezzo alle eccentricità sin da bambina ma uno spettacolo di ipnotismo non lo aveva mai visto. Rimaneva a osservare attenta cercando di cogliere le esatte parole; era distante, e l'età cominciava a renderla dura di orecchio.
Fu a un certo momento, mentre ascoltava la conclusione che si accorse di un uomo; nonostante lei si fosse nascosta l'aveva reperita e la spiava in silenzio. Alto bello e nerissimo quest'uomo la osservava ridacchiando.
Lei si voltò e vide quello che non avrebbe mai immaginato.

"Cosa ci fai qui?" disse lui.

E lei in tutta risposta gli sferrò uno schiaffo sonoro. "Brutto bastardo, figlio di una cagna" disse Donna Aurelia.
Scoprendo che suo figlio, padre di Alvino, non era morto come tutti credevano.

4 giugno 2006

ARGENTO! (capitolo 25)



Non aveva davvero paura dei sogni, e non li aspettava neppure, perché aveva capito che quelli arrivavano senza preavviso.

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Osservava le gocce formarsi, gonfiarsi e staccarsi per cadere sul piano di marmo.

PLINK

Alvino era solo nella grotta in cui lui e sua nonna abitavano ed era buio da un pezzo oramai.

PLINK

fuori tuonava, pioveva ininterrottamente da tanti di quei giorni che aveva perduto il conto.
Donna Aurelia non aveva fatto ritorno e, tranne quando era uomo lupo e faceva le sue scorribande, questa era la prima volta che Alvino si trovava solo alla notte.
Cosa era accaduto?

PLINK

quel gocciarea cadenze regolari finiva quasi per rassicurarlo.

PLINK

Se ne stava sdraiato sull’amaca ad aspettare il sonno o il ritorno di sua nonna, un avvenimento qualunque.
Poi, dato che nulla di questo accadeva, prese il libro dei fratelli Grimm; erano le fiabe che sua nonna gli leggeva da bambino.

“una sera che i pensieri non gli davano requie, ed egli si voltolava inquieto nel letto, disse sospirando alla moglie. Che ne sarà di noi? Come potremo nutrire i nostri poveri bambini che non abbiamo più nulla neanche per noi?
- senti marito mio - rispose la donna – domattina all’alba li condurremo nel più folto della foresta: accendiamo loro un fuoco, e diamo a ciascuno un pezzetto di pane; poi andiamo al lavoro e li lasciamo soli:i bambini non ritrovano più la strada per tornare a casa, e ne siamo sbarazzati.”

Questo leggeva Alvino quando avvertì una presenza dietro di lui.
“Non spaventarti” disse.
“Astor! Cosa ci fai qui?”
“Ho bisogno di una mano”
Astor era fradicio di pioggia ma non se ne curava. Aveva qualcosa, un idea per la testa.

“Vieni. Non c’ è tempo.”

Si ritrovarono sulla stradina che separava le due abitazioni, sotto il temporale. Non c'era più nessuno adesso. Solo due corpi stesi in mezzo al fango.
“prendi la lampada, io arrivo con il carro”.
Stava ad Astor il fatto di sbarazzarsi di quei due corpi, il prima possibile, la pioggia avrebbe cancellato le altre tracce.
Ma, lo sapevano, i bracconieri sarebbero arrivati più numerosi portando con se i regolari probabilmente. Erano stati uccisi due uomini durante una battuta di caccia autorizzata. E se i metodi dei bracconieri inglesi erano poco ortodossi questo non costituiva problema alcuno. Essi erano ufficialmente autorizzati dal governatorato a risolvere il problema lupo mannaro.

Fu così che Alvino per la prima volta potè vedere negli occhi il volto dell’uomo che capeggiava la caccia contro di lui.

Illumino’ Colmish per osservare come era fatto e quanto spaventevole poteva essere l’aspetto di un bracconiere osservato da vicino.
Se lo era immaginato diverso, più simile a un drago sputafuoco che a un uomo.
Invece era solo un misero diavolo, che aveva venduto la sua anima. Uccideva per rabbia e per danaro.
Una cosa banale se non fosse stato per la ferocia. Quella rabbia cieca se la ricordava benissimo. Si ricordava le urla e la paura. Si ricordava il sibilo dei colpi di fucile. Il dolore del proiettile d’argento. Bruciava le carni. Tutto questo era rimasto impresso nella sua memoria di bambino.

Scrutava quel volto dalla carnagione così chiara.

Che sorpresa gli fecero quegli occhi acquamarina aperti. Come erano diversi da quelli che guardava di solito.
E fu proprio mentre fissava quegli occhi chiarissimi che si accorse di essere fissato a sua volta. Quell’uomo trafitto ancora respirava.
Fece un balzo indietro per lo spavento e poi si accorse che il bracconiere tendeva un braccio verso di lui, afferrandolo. Rantolava. E disse in quel suo farfugliare indistinto qualcosa come “damned bastard”.

AAHHHHH
Urlò per lo spavento Alvino. Paralizzato. Completamente immobile.
Furono dei momenti eterni e terribili in cui aveva solo voglia di piangere.

Poi arrivò finalmente Astor che lo liberò molto semplicemente dalla presa. Diede un calcio al corpo di Colmish che continuò a rantolare.

“Non è morto. Non è morto.”
“Sì è probabile. Aiutami a caricarli sul carro”
Alvino era sotto shock ma il tono di Astor lo rassicurava.

“passa di la e aiutami a issarli, forza.”

Il lugubre invece era morto per davvero, il suo corpo cominciava a irrigidirsi. Faticarono a levargli il fucile, tanto stretta era la presa di quel corpo.
Poi fu la volta di Colmish. Alvino tentennava. Aveva paura di avvicinarsi.
“cosa fai, ti decidi?”
E caricarono anche quel corpo. Poi Alvino montò sul carro e i due ragazzetti si allontanarono nella notte.
Per scomparire alla curva de Su Mortoriu.

E fu pioggia. E un silenzio innaturale rotto solo dal fragore dei tuoni e dai primi galli che cantavano con la luna ancora alta.

3 giugno 2006

ARGENTO! (capitolo 24)



Giacevano ammucchiati sul tavolo di una camera della “volpe d’argento” le saccocce, i foulard e le gioie sottratte dai chicos in quei giorni di scorribanda. Refurtiva fresca fresca tra cui era facile scorgere, sepolto da collanine e danari d’argento il taccuino nero di Donna Aurelia.

CLAP CLAP

con il solito segnale Norbescu, il duca di porcellana, diede inizio alla cerimonia di catalogazione.

Alla luce della lampada a carburo si passava al vaglio la mercanzia, suddividendola in ordine di valore. Ed era questo un rituale preciso, cui Norbescu dava somma importanza.
“La scienza” era, quella la maniera, neppure tanto ironica con cui il duca di porcellana aveva definito l’intera attività del malaffare. Catalogare. Vendere, mettere da parte.
Queste tre attività erano i pilastri della “scienza”.
Alla base vi erano viaggiare, e poi il cuore: turlupinare, cui era preferito rubare, poiché il raggiro, sebbene divertente, lasciava tracce più evidenti. Era accaduto che alcune sue vittime, rinsavite di colpo lo avessero inseguito. Il raggiro non era roba da bambini, occorreva la sua abilità dialettica. E benché fosse maestro insuperato nell’arte della truffa. Trovava più comodo e più sicuro affidarsi, per l’attività, ai chicos. Aveva dunque ceduto il passo, come diceva tra sé e sé compiaciuto, alle nuove generazioni. E quindi era quello il suo scopo, tramandare, arricchirsi nell’ozio illegale, è ovvio. Che il lavoro era considerato attività dei gonzi.

Vi si era dedicato con tutto lo slancio di cui un mariuolo dispone, a quella scienza, per potere perpetrare una attività di malaffare per perdurava ormai da decenni.
Prima regola della scienza: la refurtiva sottratta in un luogo andava smerciata in un luogo differente. Evitando dunque che le merci rubate potessero facilmente essere riconosciute dai legittimi proprietari.

CLAP CLAP
le aveva scandite da quel suo battito di mani, quei precetti. Che a suo avviso rimanevano più impressi.

Discrezione e stile d’altra parte, facevano di lui un nobilotto di cartapesta, messa in scena del tutto artificiale, di buone maniere e belletti cui non credeva veramente nessuno tranne alla fine dei conti, lo stesso Norbescu.

CLAP CALP

“Lo stile lo capirete più tardi: Ma sappiatelo, esso è la base del rispetto.”

Era davvero, a sondare i pensieri più reconditi e inconfessi, il Duca di porcellana.
Era davvero un faccendiere sempre sul punto di acquistare un latifondo negli angoli più sperduti del Sud America.
Ed era, inoltre, un ottimo amministratore della sua fortuna, duce indisturbato di una marmaglia selvatica feroce che educava con pungo di ferro.

Eh già, la scuola di Norbescu era spietata.

Norbescu, d’altra parte, non poteva permettersi che un bambino sbagliasse perché un errore avrebbe messo a repentaglio la sua stessa persona.
Quindi l’educazione era qualcosa che seguiva da vicino, personalmente, con estremo scrupolo.

A sei anni o anche prima, quando venivano rapiti o comprati, i chicos, venivano addestrati alle arti di funambolismo e furto con destrezza.
C’erano “i dotati” e “i refrattari”. I dotati erano coloro che apprendevano l’arte del borseggio in quattro e quattr’otto. Elmer era una meraviglia sotto questo profilo, un congegno perfetto per il furto con destrezza. Andava giusto “oliato” con qualche lezione di finezza, ma era, a sentire il duca di porcellana, per sua natura, un ladro nato.
Gregory aveva imparato anche lui con la velocità del soffio. Due assi, rapidi ed eleganti. Questo erano agli occhi di un patrigno orgoglioso quale Degla Norbescu.
Ma si sa le gioie della famiglia, benché artificiali, possono occasionalmente essere accompagnate dal dolore. E questo si presentò sotto le ingannevoli sembianze di un bambino smilzo e rossastro.

Rapito dai chicos nel sud della Francia J.C. aveva presto mostrato di appartenere alla categoria dei “refrattari”.
“il furto è nella natura dell’uomo, mi intendi?”.

E lui niente. Diceva “sissignore” ma non la sua testa era altrove: E il cuore ancor più distante.

“Homo Homini lupus” affermava il duca di porcellana citando teorie filosofiche masticate in qualche locanda fumosa.

Ma niente di niente. Quel bimbo introverso non trovava la sua via. Lo aveva messo “a bottega”. Esercitava di fianco a Elmer e una volta , per poco non li arrestarono entrambi.

“imbecille irresponsabile ingtrato” lo aveva apostrofato il duca di porcellana con la sua peggiore espressione.

“Servono gesti precisi J.C. o ci manderai tutti in galera!”

Assaggiavano non di rado la zirogna, i chicos. La zirogna era una lunga frusta da cavalli che il duca di porcellana aveva acquistato un giorno, anni addietro, in località Papassinas.

E aveva dunque provato con tutte le sue energie a raddrizzare quel marmocchio inadeguato.
Era goffo e pasticcione. Lo si era punito.
Poi i giorni passavano e J.C. costituiva la sgradevole eccezione. Macchè, non imparava: ostinatamente acerbo.
Vergognosamente refrattario.
Dopo un’ultima generosa prova sotto gli occhi di tutti fu decretata la sentenza.

“Addio J.C.”

Il bambino fu ucciso dai suoi stessi compagni.

Che i chicos imparassero la dura legge del duca di porcellana.

Aveva l’aria di un gioco? Non lo era. Doveva apparire leggero e divertente per gli altri, per i polli da spennare, per i gabbati. Ma i bambini sapevano benissimo che si trattava di una disciplina da servire con il massimo zelo.
E questa era dunque “la scienza”.



“Passami quel libro Elmer.”

E il taccuino nero fu toccato, sfogliato, scritato da mani e occhi estranei, cosa che non era mai accaduta, per secoli, prima che i marmocchi se ne impossessassero con la forza quel pomeriggio di pioggia.
Con il solo occhio a disposizione prese a scrutare la scrittura minutissima di Donna Aurelia e delle altre donne che avevano con pazienza, Degla Norbescu.
“Hmm, la vecchia pareva volerla proteggere con ogni forza. Che roba è?”

“non è un libro di miniature, non c’è traccia di iscrizioni in oro.Sembrano solo scartoffie”.
Si provò a leggere le annotazioni, ma la scrittura era talmente minuscola che non riusciva quasi a decifrare le singole lettere. Stava perdendo la vista all’unico occhio che gli rimaneva. E poi non parlava spagnolo.

“bah disse, merce senza valore”. E buttò verso il camino quel libro nero.
Che rimbalzò e fu raccolto da Elmer, incuriosito.

Non sapeva leggere Elmer ma gli piacevano i libri illustrati. E lo sfogliò con quelle sue manine lerce da putto. Alla ricerca di immagini. poi avanti e indietro a costatare che la scrittura cambiava.
Non capiva nulla, ma intuiva che quel libro gli piaceva.
Lo ripose nella sua bisaccia e si addormentò al tepore del camino.

1 giugno 2006

ARGENTO! (capitolo 23)




Frattanto “Sir” Colmish organizzò una battuta di caccia con tutta la rabbia di cui disponeva.L’incasso di 46 chili d’oro era sfumato a causa della rivolta dei campesinos ma Colmish non era tipo da arrendersi facilmente.
Sulla pubblica piazza una notte di quelle sgozzò e scuoiò un lupo appena catturato.

“Per Billy lo Gnomo, in memoriam ecc.” Disse con tono solenne.

“Dichiaro aperta la caccia più spietata della storia di questo stato miserabile”.


“Hurrah!” risposero i bracconieri.
E si fece annusare alla muta di cani la pelle e il sangue poco prima che i corni inglesi risuonassero nella notte paradorena.
“Hey Colmish che c’entrano i corni; Non è mica una caccia alla volpe” Lo apostrofò il lugubre.

“che il diavolo ti porti razza di disfattista. Voglio una caccia all’ultimo sangue; una cosa in piena regola e se servono i corni o la union jack per motivarci, beh al diavolo useremo i corni o la union Jack.

Ma pioveva ininterrottamente da giorni e questo non sarebbe bastato tutto l’ottimismo sommato a tutti i corni del regno d’inghilterra + tutti i cani setter o poenter + tutte le union jack a cancellarlo. Pioveva come solo in Parador poteva. Pioveva ininterrottamente da giorni con quel senso di umidità che diventa malinconia e si trasforma in presentimento.
Pioveva il destino, dicevano i vecchi di Mammarranca. Intendendo che quando cominciava a quel modo solo un grande terribile avvenimento avrebbe potuto porre fine a quel sentimento nostalgico e fluttuante che annegava le anime dei diseredati.
E il destino si abbattè sui bracconieri inglesi. Un destino che non parlava la loro lingua ma che si fece intendere ugualmente.

“pioggia sottile di sabbia”
“dannati cani, sono ciechi con l’acqua”

E i nasi protesi allo spasimo non sentivano odore alcuno. Andavano perché spronati dalle urla dei bracconieri. Ma erano privi di olfatto.

Quella orda di devastatori indemoniati e ubriachi avanzò disordinata. Formicolante; devastò vitigni, uccise volpi e porcospini, Massacrò coyote, capre, perfino un cinghiale e giunse fino alla curva de Su Mortoriu, che era la zona di Astor.

Le malelingue in quella occasione avevano infatti ripreso a fiorire, il fiorte del male aveva germogliato in malasorte e portò, anonimamente, ad incolpare Astor il solitario. Chi è l’uomo lupo? Quell’uomo bambino che non vive con gli altri.

La voce serpeggiava di osteria in osteria, rimbalzava di bocca in orecchio. E giunse sino a Colmish.

Stavolta ne era certo. Non sarebbe sfuggito.
"bastardo bastardo" bisscicava sotto l'acqua mentre avanzava con i suoi bardamenti da caccia.

Sotto quel cielo cupo si udirono le urla dei bracconieri miste a quell’abbaiare di cani.
Un silenzio improvviso e poi

SBRAM

Sfondarono la porta della casa di Ines alla ricerca di suo figlio Astor.
Ma lui li aveva sentiti arrivare e li aspettava, sul tetto, armato di un arco.

La prima freccia colpì Ian McGallan al cuore e lo trapassò fino alla schiena. L’urlo squarciò la notte e fu coperto solo da un tuono fortissimo.
Colmish imbracciò il fucile
“ E’ lui , abbattiamolo” urlo ai suoi:
“bastardo mannaro” continuava a sbraitare più che altro per darsi coraggio, dato che era chiaro a tutti che quella freccia imprevista aveva fatto evaporare molto dell’entusiasmo precedente.

Spararono senza troppa convinzione, in un orgia di proiettili d’argento.
Poi Astor comparve velocissimo su un altro tetto e Alvino lo vide prendere la mira. Ritto e maestoso sotto l'acqua.
Un lampo gli illuminò il volto mentre scoccava la sua freccia: rideva.

William Holmer Colmish colpito al petto cadde su se stesso. Tossendo sangue.
Fu a quel punto che Marc O Brien, il tracagnotto, prese l’iniziativa.
“alla malora” disse afferrando Ines per i capelli e trascinandola fuori in mezzo a quel putiferio di acqua e di fango.
“vieni fuori bastardo, o quanto è vero Iddio le faccio saltare le cervella” Urlava il tracagnotto.
Aveva il fucile piantato contro la nuca, Ines, ma non sembrava davvero intimidita.

“Vieni fuori ti dico”
“recita le tue preghiere donna”
Dal tetto non un rumore. Astor sembrava volatilizzato.
"di addio a tua madre bastardo mannaro".

E fu in quel momento che i bracconieri inglesi si accorsero di essere circondati da quella stessa folla ostile di campesinos che li aveva privati, poco tempo prima, di Emiliano Maraboto.
Una massa accigliata e silenziosa era apparsa da tutta la piana armata di forconi, roncole, o semplici bastoni. Senza un fruscio o un rumore si stringeva in un assedio silenzioso ed eloquente. Ed erano vestiti di bianco, di quel colore irreale nella notte nerissima.
Vicini, sempre più vicini.
Sino a quando il tracagnotto comprese chiaramente ciò che rischiavano lui e i suoi compari e, lentissimamente, abbassò il fucile. E con lui tutti i bracconieri. Tanto che Ines si mise in piedi. E sorrideva, come pochi istanti prima aveva sorriso suo figlio.
Si aprì un varco in quella folla stipata e i bracconieri vi si infilarono dapprima lentamente poi sempre più rapidamente, fino a scomparire correndo dentro alla pioggia.