27 settembre 2006

ARGENTO! capitolo 45




Quando era bambino, in tutta quella effervescenza di avvenimenti e spettacoli mesmeristi e incontri e successi da capogiro aveva sempre temuto che un giorno la giostra, lo sgangherato carrozzone rutilante che corrispondeva alla sua giovane esistenza, si fermasse e che qualcuno facendosi avanti lo invitasse a scendere. Chi fosse questo qualcuno, se la sua coscienza, la morte o altro non avrebbe saputo dirlo. Seppure bimbo aveva capito che non si vive di solo presente e sentiva una forza di colore bianco che pulsava in petto. La chiamava con un nomignolo infantile, quella presenza, il giovane Vladymir: “Silverman” come fosse un amico, e poi Anima e poi ancora Dio, ma tra tutti questi nomi la consapevolezza di non essere solo lo aveva accompagnato sempre e comunque.
Adolescente si era inebriato del senso di potenza conferito dall’età; e dall’alto della sua visione acerba aveva coltivato l’illusione di essere padrone del ritmo. La vita danzava secondo la sua musica. Hum-papà Hum-papà in un tre quarti infinito. Ed era danza lieta e pure spensierata, quella che un giorno lo aveva condotto all’abbandono di una cospiqua fortuna per divenire cio’ che era divenuto: un picaro, corteggiatore della vita, assaggiatore delle spezie segrete, amare o dolcissime, che questa riserva ai temerari.
Aveva riso. E ripetuto la frase sarcastica che suo padre (buonanima) sfoderava, come si sguaina una scimitarra, nelle grandi occasioni di scontro:

"A glick hot dir getrofen" Ti è capitato tra le mani un pezzo di fortuna.

Si era visto, nel palcoscenico dei suoi sogni ad occhi aperti: elegante pilota di tappeti volanti, creatore di gesta mirabolanti, oppure, invecchiando, semplicemente viaggiatore, illusionista e baro, come lo volevano lingue malevole incapaci di vedere tra le righe.
Eppure tra le righe lui aveva scrutato con passione per tutta la vita. Passione divenuta, man mano che le sue tempie imbiancavano, quasi bramosia; al constatatare che l’esistenza è atto misterico e pieno di soprese per chi, con mano di velluto, sappia muovere ingranaggi e meccanismi, l’orecchio teso a cogliere il click fatidico che schiude la cassaforte del bello.

“Ladro”, “predone”, parolone insensate per uno che credeva con tanta potenza. “Devoto” si era sentito a un certo punto della sua vita, disonesto mai.
Le aveva semplicemente lette, lui, le regole del mondo, tra le righe del suo diletto Cervantes e del suo non meno venerato Omero. Era apparso chiarissimo che la vita va amata come si ama una donna, senza trroppe smancerie, ma con devozione cieca e ispirata.
E questo aveva fatto Vladymir Andrey Rostropovitch; a dispetto di quelle troppe y che affievolivano l’impatto del suo virile nome di battaglia. Ereditato come si eredita dalla famiglia, ma portato alto come il vessillo di un’armata che combatte con passione le battaglie di cause dimenticate o perse nel tempo.

Ricordava precisamente, quasi fosse rimasto inciso nella sua memoria, il momento in cui divenne (come prosaicamente lo chiamava suo padre) balnes, colui che fa i miracoli. Ed era giovane, giovanissimo come balnes. Un prodigio di forza magnetica che aveva eletrizzato la nobiltà di mezza europa sul finire dell’Ottocento. Li faceva viaggiare nel limbo ipnotico e vedeva con loro cose che la logica rifiutava di ammettere. “L’uomo non è solo logica. L’uomo è magnetismo”, sbottava suo padre, “ è forza in sintonia con il cosmo”.


Da queste premesse non poteva scaturire uno scienziato, non un logico, ma un poeta, forse. Che studiava la forma, lo stampo da cui era colato, come un pudding solido e molliccio; con lo stupore dei ventenni che camminano sul vento. Questo si era sentito un giorno mentre si radeva. Un giorno qualunque quando la sua mente, inceppata, è probabile, aveva partorito la perla di sapienza orientale che prende il nome di satori. Illuminazione.
Una forma piena di energia e magnetismo, un pudding forse, ma bipede e venato di una sua, peculiare e tutta ebraica, malinconia.

Al pudding, al suo stampo e a suo padre, e alla sua malinconia, a tutto questo pensava Vladymir, mentre a cavallo, armato come un predone, con fucili a tracolla e doppia colt nelle fondine ascellari attraversava le secche di Coloriu Arrubiu diretto a nord, fin verso Puerto Oruro in compagnia di Elmer. Un magma di pensieri da cui sembrava imprigionato. Gli accadeva quando non voleva pensare, in quelle occasioni in cui si avverte che il pensiero diretto provoca dolore e porta smarrimento. Allora, come una seppia che spruzza il suo inchiostro, per confondere il nemico, Vladymir si cullava nel magma, che era abilissimo a generare. Un magma di pensieri collosi che intrattenevano il suo cervello stanco e consolavano il suo cuore sanguinante.
Sentiva una certa simpatia per quel cucciolo d’uomo che aveva avuto, come lui, un infanzia negata.
Ma mentre la sorte su di lui si era mostrata generosa inondandolo di fortuna sfavillante e lo aveva accolto a corte, giovane wunder-jung, per farsi intrattenere, ad Elmer aveva riservato la guida di una luce fievole, pallida quanto sa esserlo la luna guardata di sottecchi, attraverso la trama sdrucita di una palandrana usata come coperta. Non sapeva dire esattamente come, né dove, ma ad un tratto la vita era stata talmente prodiga di asprezze che lo sguardo da cucciolo di Elmer si era trasformato in quello venato di crudeltà che lui aveva scorto. Ed era proprio questo dettaglio a turbarlo.
Ad annunciargli un crepuscolo bizzarro. Aveva visto in ritardo, obnubilato da un pregiudizio (infanzia = innocenza). Grave. Gravissimo.
Lui che di intuizione e introspezione aveva fatto il passepartout per un paradiso su terra con latitudine sud. Lui che era cresciuto sulle ali dei due Franz, seguendo fisiogomica e mesmerismo come si seguono madre e padre da bambini, con tutta la speranza del mondo racchiusa in un semplice assioma: “Sono venuti prima di noi, sapranno bene la strada”.
E invece tutte quelle certezze avevano finito per incrinarsi e franare miseramente al suolo. Il mersmerismo era divenuto dunque uno spettacolo da circo e i suoi talenti avevano fatto di lui un baro professionista.

Preferiva definirsi picaro (anche i consapevoli hanno un cuore da proteggere) e viaggiava a cavallo di avventure leggendarie (per come se le raccontava a notte fatta, o per come si sentiva raccontarle se per caso nella combriccola da spennare faceva capolino il corpo di una donna interessante). Allora diventava loquace e sfoderava la sua qualità di contastorie che non era seconda a nessuno in tutto il continente. Ma doveva essere ispirato. Da bellezza, brivido del gioco e vellutato vino rosso del Parador.

Sospiro’.
Non ne sentiva certo il sapore di quel vino, adesso che erano a secco e l’amarezza si faceva varco. Immaginava un Elmer bambino che uccide e razzia senza scrupolo e nel farlo non poteva fare a meno di “comparare” le loro due esistenze, in un gioco doloroso che non ha scopo reale se non quello del tormento. Bianco e nero, sole e luna, giorno e notte.

Provava un senso di pietà per quella infanzia negata pari, forse, solo a quella autocompiaciuta che talvolta lo assaliva nelle notti solitarie in cui si ritrovava a piangere pateticamente per se stesso, “oh me misero, me tapino” singhiozzava, assecondando la chimica del malumore o del troppo velluto liquido (l’uomo è energia , non logica). Sino a quando i primi bagliori scacciavano il velo pietoso della notturna autocommiserazione. Al canto dei primi uccelletti si alzava e sciacquandosi il volto cercava di mandar via il rossore delle gote. Ma non era sporco quel rossore, era pudore, che sconfinava in vergogna.


Mentre Herr Doktor si allontanava dallo scenario di catastrofe naturale che aveva colpito il Parador in quei giorni di fine estate con la sua mente accarezzo’ il ricordo tenero di Lupita. Era la sua bellezza ad averlo stregato. E i suoi modi burberi. Ma non sapeva nulla di lei, come spesso accadeva quando era tanto disposto a mettersi in gioco.
Capitava che si prendesse per Don Giovanni o forse si dovrebbe dire “Casanova” tale era il suo amore per la grazia del gentil sesso. Totale e abbacinante come un’alba del deserto.
E rischiava di perdere la sua stella polare pur sapendo che era proprio in quel perdersi accanito il senso di una vita da picaro. Picaro lo si è nell’anima, prima che nelle gambe questo credeva di avere compreso (una delle poche vere certezze accumulate nel tempo, tra gli zoccoli in movimento del suo Herr Doktor).

Mentre trottava lievemente in quel paesaggio fiorito e battuto dal sole cocente senti’ il peso di un corpo che si abbandona e voltandosi appena e tastando con la mano si avvide che Elmer era caduto addormentato. Allora, con la cura che avrebbe destinato a uno dei suoi due volumi più cari decise di sostare, scese e preparo’ un bivacco, slacciando la sella dal ventre sudato di Herr Doktor e accasciando il corpo di Elmer in un letto morbido di trapunte e coprendolo con le premure di un padre.
Poi mentre rimboccava quelle coperte e accarezzava i capelli biondi del piccolo una cosa dal taschino di quelle vesti lercie attrasse la sua attenzione. Lo vide e non credette ai suoi occhi, lo prese in mano e constato’ con tutto lo sconcerto di cui disponeva che si trattava proprio di quel che sembrava: un’orecchio umano.

2 commenti:

igort ha detto...

E continuità sia. Sto riprendendoil ritmo. molto dipende da quanto suona il telefono e da quante volte vengo interrotto. Ma la trama bussa alle porte e se non scrivo di seguito dopo un poco seorge un malessere.

Comunque ecco i capitoli. Grazie per la vostra attenzione.

Anonimo ha detto...

Bellissimo capitolo.

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