31 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 22)






"A shaynem dank in pepek!" disse Vladimyr Andrey Rostropovitch poco prima di rotolare al suolo. Rideva, Vladimyr nonostante Lupita lo stesse prendendo a calci. Rideva divertito come tutti i presenti. Lei, disgustata, si strofinava le labbra come fossero state insudiciate da quel bacio imprevisto.
«Cabron! Hijo de puta»
questi i complimenti che la donna sussurrava fuoriosamente. E lui amava le belle donne furiose, le amava perdutamente, senza remora alcuna come si ama a quindici anni, con un abbandono totale.

Trascinato da quella furia avanti e indietro per la miniera d'argento Vladimyr rotolava e rideva, rideva e rotolava. Poi quando ne ebbe abbastanza si mise in piedi e la guardo' arrivare; alzo' una mano e porto' il suo sguardo a incrociare quello di lei.

E qualcosa accadde.

Lupita si fermo' di colpo. E la sua furia scomparve come un temporale d'estate.
Tutti fecero

OOHHHHHHH

E quello fu il momento nel quale scoprirono che Vlad era un ipnotizzatore coi fiocchi e non un semplice ciarlatano.

Vladimyr Andrey Rostropovitch era infatti un adepto della setta Mesmerista. Un accanito fedelissimo, gran dottore della dottrina fondata da Franz Anton Mesmer, esimio esponente delle tecniche viennesi, cultore di scienze nauturali ed esoterismo.

«I fluidi vitali penetrano ogni cosa nell'universo»
Diceva Franz Anton Mesmer.

«il corretto funzionamento dell'organismo è dovuto a una perfetta armonia con le cose dell'universo.»
Ribadiva Franz Anton Mesmer.

«Il magnetsimo animale fluisce, atrimenti tutto si blocca. »
Specificava Franz Anton Mesmer.

Ed elaboro' una scienza esattissima che posizionava secondo determinati circuiti corporei delle calamite per ripristinare il flusso vitale interrotto da malattie e affini.
Poi, come la ricerca è premiata dagli dei, Mesmer trovo' la perfezione nelle sue famose vasche magnetizzate con vetri acque e argento.

In queste vasche si facevano bagni collettivi che permettevano di accedere a stati di coscienza alterata che venivano chiamati «sonnambulismo artificiale».

Viaggio' molto per l'europa, Franz Anton Mesmer, e in Germania connobbe Kilmer T. Rosptropovitch, padre di Vladymir e grande dottore di scienza, che divenne suo adepto.

Vladymir navigava nei flussi esoterici dall'età precocissima di sei anni e mezzo.
E sognava visi e misteri della vita.
I visi gli apparivano in sogno e dicevano. «Chi sono? Cosa dicono le mie forme?»
Influenzati dai discorsi del padre che si estendevano fino a notte fonda. Vlad ebbe modo di penetrare la pratica delle forme. La "fisiognomica", coniata dal grande studioso Johann Franz Lavater nel lontano 1772.

«Le teorie di Lavater sono importantissime figliolo, esse rispondono alla scienza della fisiognomica».

Questo diceva a notte fonda a suo figlio Vladimyr Andrey

“È possibile inferire il carattere dalle sembianze, se si da per assodato che il corpo e l'anima vengono cambiati assieme da influenze naturali”

E questo è Aristotele che anticipava lo stesso Lavater e lo confermava nella sua visione. Capisci figliolo? Aristoletele! Perché questa scienza affonda le sue radici nell’antica grecia.
Physiognomica.

Nel loro migrare di capitale in capitale, di nazione in nazione la costante dei loro discorsi sino al giorno della sua morte fu quella che il padre Kilmer T. Rosptropovitch definiva la scienza dei Franz (alludendo con questo alla costante del nome Franz nelle persone dche avevano elaborato la dottrina del Mersmerismo e quella della Fisiognomica).

Esperto di frenologia e fisiognomica dissertava con il padre sulle forme della natura e sull'intelligenza che detta le forme medesime.

«Di tutte le persone che ho visto ho potuto osservare che 16, 18, 24 ore dopo la morte (dipende dalla malattia) essi hanno avuto una forma piu' bella, meglio armonizzata, proporzionata, definita, omogenea, nobile, piu' esatta di quanto non abbiano avuto durante la vita.»

Qui Lavater anticipava lo spirtualismo che sarebbe esploso in America un secolo piu' tardi. E quello era stato l'ultimo scambio illuminante con suo padre morto vecchissimo.

A quella grande eredità che lo aveva reso ricco, potente, in armonia con i segreti celati della natura.
A questo pensava Vladimyr Andrey nel momento dell'ipnosi: alla "teoria dei Franz".

Quando Lupita, bellissima e immobile, statuaria, viaggiava nel mondo del sonnambulismo artificiale.

«Alza il braccio sinistro. Ora quello destro» disse Vladimyr Andrey Rostropovitch.

«Rendimi le pistole»
E la donna obbediva, docilissima, con I suoi movimenti aggraziati e distanti.


Fu mentre camminava sotto la pioggia che i lampi si fecero piu' insistenti. Donna Aurelia era abituata a seguire le rotte dei suoi pensieri, a perseguire caparbiamente i suoi progetti, anche nella semplice e banalissima quotidianità, ma qualcosa, quel giorno, stava probabilmente cambiando in lei perchè per la prima volta da quando era bambina adesso si sentiva nuda davanti al destino; priva del suo scopo sino ad allora perfettamente perseguito. La perdita del taccuino nero, stranamente, apriva nuove strade all'imprevisto. In altri momenti la malasorte sarebbe stata come un bagno nell'ortica, avrebbe condotto in fiumi di malumore inestinguibili; ma oggi Donna Aurelia aveva una forza nuova, data da quella pioggia battente e da quella idea, del tutto irrazionale, che non tutto fosse perduto.

Nella mente canticchiava Mozart. Il primo movimento del concerto 19 K459 e sorrise addirittura.
Poi, camminando per la piana arrivo' all'altezza di un enorme masso candido. Era sovrapensiero e il fango le avvolgeva le caviglie. Eppure non si sentiva indifesa malgrado a vederla, fradicia e minuta, la si sarebbe detta un essere perduto.
Non se lo spiegava lei neppure perché stava facendo quello che si vide fare, quando si infilo' dietro l'enorme masso bianco, in quello spazio celato che prendeva secondo le leggende, il nome di cunicolo 7.

30 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 21)



Fu una musica a risvegliarla dolcemente, risuonava nel suo cranio indolenzito provenendo dalla stanza dei ricordi. Poi una goccia dopo l’altra sul viso.
PLINK PLINK PLINK
Le fecero aprire gli occhi.
Fu un triste risveglio. Amaro e disperato.
“Che stupida, che stupida” ripeteva a se stessa.
Si era fatta attorniare troppo facilmente. Si era fatta prendere di sorpresa. D’altra parte non avrebbe neppure potuto divenire invisibile, troppi testimoni per quello che doveva restare un segreto.
Istintivamente si porto’ una mano al petto ed ebbe la sgradevole sensazione di sentirsi nuda. Constato’ infatti che le avevano portato via il taccuino nero.

Le venne da piangere e si ritrovo’ in mezzo al fango e alla pioggia a singhiozzare come una bambina. I segreti dei Picocca, custoditi per secoli, non erano piu’ al sicuro.

Adesso la vita sua e quella di Alvino erano in grave pericolo.

Si senti’ male e si maledi’, maledi’ quel giorno e quei dannati chicos, e la sua imprudenza, il luogo e la pioggia. Poi guardo’ in alto, lo sguardo accigliato. Quel cielo cupo da cui cadeva il finimondo. E tacque.

Si vide piccola e bagnata in mezzo a una pozzanghera. E in quel momento ebbe la percezione precisa che la battaglia non era perduta. Non ancora.
Sospiro’ e si asciugo’ le lacrime di rabbia, ci fu un tuono e un lampo improvviso illumino’ la piana d Diablo, Donna Aurelia si incammino’.

Alvino giocava con Astor, cercavano di fabbricare un arco. Selezionavano i legni adatti e li flettevano. L’arco era piu’ alto di loro; e questo li impressionava tantissimo come idea.
Con Astor non erano mai stati davvero amici. Alvino era più piccolo e Astor aveva un temperamento taciturno. Ma la visita di Billy lo gnomo aveva avvicinato i due. Alvino si domandava se avesse scoperto il loro segreto quella famosa notte.
Pochi scarni dialoghi mentre tendevano il filo sottile ricavato da un nervo di bue.

“Tendi, piega di più, senza spezzarlo”.
“Cosi’”.
Suonava come un violino pizzicato quell’arco teso e pronto a scoccare la prima freccia.

TWOOK

Schiocco’ quella contro un tavolaccio che avevano messo per fare da bersaglio.

“ Grandioso!”
“Astor…”
“Si’?”
“ Quando è entrato il nano, quella sera, non hai avuto paura?”
Astor lo guardo’ fisso con gli occhi neri scintillanti e poi distolse lo sguardo inseguendo i ricordi.
“No, paura no”
E aggiunse: “Non hai il tempo per avere paura quando odi tanto qualcuno”

L’odio. Poteva un sentimento tanto definitivo abitare, addirittura devastare il cuore di un ragazzetto?
Astor non aveva compiuto 11 anni quando la sua vita era diventata una piccola sfera di vetro. Fragile e trasparente.
Poteva rotolare verso un destino sereno. Oppure verso una buca oscura di dolore.

Cosa era successo? Quale spinta aveva definito la sua vita?
Il destino aveva cominciato a scivolare pericolosamente verso l’abisso, quando suo padre, al pari del padre di Alvino, era stato arrestato dai regolari. Non aveva mai più fatto ritorno.

A ogni modo questo lo aveva reso un orfano e aveva trasformato la sua esistenza in quella di un uomo bambino. Abitava in mezzo alla natura e viveva con le sue capre. Dormendo all’addiaccio piuttosto che rientrare a casa. Non che avesse troppi amici, d’altra parte; era temuto dagli altri ragazzi e riconosciuto come un diverso. Rispettato ma seriamente evitato.
Dal giorno in cui in seguito a un litigio aveva spezzato il braccio di luisito Lopez.
Quel crak imprevisto lo aveva confinato per sempre.
E Astor aveva accettato il verdetto, mai pronunciato, con la consapevolezza che in fondo era giusto cosi’. Accendeva i fuochi nelle sere di inverno, e quelle luci distanti erano divenute una specie di benedizione del luogo. Si sapeva che Astor era in giro, e che nulla di molto grave poteva accadere.

Poi erano venuti gli assalti mannari e Astor era stato incolpato. Come mai le sue capre non ne avevano mai subiti, di attacchi?
Sfidato pubblicamente a fare a pugni Antioco Barrambilla aveva rimangiato le sue parole.

Poi una notte di maggio sua madre Ines aveva tentato il suicidio. Non diceva una parola da tanto. E si muoveva al buio in quella casa abbandonata dagli uomini. Che vita da ombra quella.
TAK!
aveva fatto il seggiolino in legno cadendo. E Donna Aurelia aveva avuto la netta sensazione che qualcosa di brutto stesse per accadere nella casa poco distante.
Quando la vide penzolare dal soffitto con un calcio spalanco’ la porta e la tiro`giu`. E la bacio’ quella donna sottile, la bacio’ come nessuno da anni aveva piu’ fatto.
Gli occhi si bagnarono di lacrime e sembrarono chiedere in quel silenzio troppo denso: “perché?”

Non si muore di dolore, di strazio, di assenza. Non è accettabile, dignitoso, neppure per chi è divorato dalla solitudine e sputato in faccia dalla miseria.

Questo rispose con il suo sguardo Donna Aurelia.
E fu dunque chiamato Don Erminio, su dottori.
Che visito’ la donna, le fece una iniezione per addormentarla e bisbiglio’ qualcosa all’orecchio di Donna Aurelia.
Si decise che per qualche tempo Ines sarebbe stata vegliata.
Alvino aiuto’ ad accompaganre la donna di ombra nella grotta che faceva loro da casa e preparo’ l’unguento alle erbe selvatiche per lenire le lacerazioni della pelle nel collo.

Astor odiava sua madre; la sua mente di ragazzo triste, non aveva mai compreso quella resa, la voglia di scomparire. Eppure dopo quel fatto qualcosa era cambiato.
Astor aveva compreso che qualcosa di fragile come il vetro apparteneva non solo alla sua vita ma anche qualla donna che lo aveva generato.
E i fuochi nella piana avevano cessato di rassicurare le genti del villaggio.
Un camino si era acceso e una zuppa ribolliva in silenzio. Sino a quando una voce roca, che non parlava da tanto, aveva pronunciato queste parole: “Vieni Astor, la cena è pronta”.

PLIN PLON




Tornato dalla Corea do una scorsa al blog.
Ci trovo confusione e caciaroneria. Una classe di talentuosi fanfaroni. OK, questa è la materia che abbiamo, si chiama fumetto italiano.
In corea ho incontrato molti autori, alcuni piuttosto interessanti. Si sono rimboccati le maniche e stanno creando una nuova realtà. Attorno a Kim Dae Joong e Sai comics si sta creando una scuola pari, come potenza, a quello che Chris Oliveros ha fatto con i canadesi di Drawn & Quarterly.
Parlare di realtà, storie autobiografiche o con taglio storico o "simil giornalistico". Una linea forte e definita. Nascono storie magnifiche e visioni personali.

La cosa che trovo molto bella è questa volontà di stare uniti, vicini. Di fare gruppo.

La cosa che trovo penosa è il taglio da melodramma che trovo negli scritti nostri. Qui un gruppo è una setta. L'insulto si chiama provocazione, un progetto diventa una cospirazione.

Questa cosa annoia chi non è addetto ai lavori. Lasciamo da parte gli onanismi OK? Va bene il laboratorio delle idee ma non ci si impone sugli altri a urla.

I disegnatori che ho incontrato mi hanno insegnato cose bellissime. Una è questa.
"La visione asiatica del fumetto, igor, lo devi capire, è che si racconta velocemente e bene. Un autore deve fare le sue seicentoventi pagine in un anno e poco più; qui facciamo cosi"'.

Questo mi dice Kim Dae Joong a tavola. Se fossero tavole tirate via e senza cura annuirei e penserei che vediamo lo storytelling in maniera diversa. Ma sono tavole di una bellezza notevolissima. E considero che qui da noi ci si perda in fumosità e rissosità inutili.

Autori. Rimbocchiamoci le maniche, ci si aspetta grande racconto. Hop.

Da oggi poi si riprende con ARGENTO!

grazie.

21 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 20)




Pioveva incessantemente da quattro giorni e questo rendeva le strade attorno alla Piana do Diablo quasi impraticabili per il fango.
Donna Aurelia, lascio’ il carro e il puledro nella stalla e si incammino’ a piedi verso Mammarranca. Erano circa 20 miglia, sarebbe arrivata dopo quasi una giornata, ma non sopportava l’attesa. Lei che non aveva mai aspettato gli avvenimenti, ma piuttosto assecondati o preceduti, non si dava pace da quando su dottori era scomparso. Guardo’ la luna e si mise per un attimo a pensare ad Avino. Una volta tornata alla piana aveva sentito parlare del “cumprachico” e si domandava perché le autorità non agissero. Quell’uomo, Leopold Degla Norbescu, l’uomo di Bucarest, era famigerato e sebbene il suo spettacolo di arte circense, messo in scena dai marmocchi, godesse di un certo successo erano in diversi ad avere sporto denuncia per i borseggi. Già in passato lo avevano messo dentro, il duca di porcellana, e non erano serviti gli insulti o le regalie per liberarlo, ma un decreto di espulsione che era stato applicato con la velocità del fulmine. Quindi adesso, fattosi prudente aveva capito che era meglio spostarsi da un villaggio all’altro prima che l’aria divenisse irrespirabile. E cercava di evitare con ogni attenzione i regolari.

Ma l’alcalde aveva altro genere di pensieri. Sdraiato nella sua residenza era vegliato giorno e notte da Don Erminio, il dottore, e da guardie armate che impedivano a chiunque di entrare e uscire. Questi gli ultimi ordini si Sua Eccellenza.
Erminio, medico, ma prigioniero a tutti gli effetti, si era rassegnato a seguire il decorso post operatorio, come ci si rassegna ad attendere la fine di un viaggio troppo lungo.
Controlava la temperatura, e constatato che la febbre era ancora a 40 si era arreso ad ascoltare i deliri di quell’uomo che bisbigliava cose senza senso; perfino, a volte, strane confessioni imbarazzanti.
Gli adulteri dell’alcalde non lo interessavano troppo e la situazione era sotto controllo dato che le febbri erano i postumi dell’operazione, una banale routine, non una infezione seria, e il paziente non correva nessun reale pericolo.
Avrebbe voluto tornare a casa, nel suo ambulatorio, ai suoi pazienti, alla sua routine giornaliera, Don Erminio ma nulla poteva. E poi non si era opposto sperando che , per una volta, l’alcalde si sarebbe dimostrato di parola.
Aveva promesso di liberare dei prigionieri se tutto fosse andato per il verso giusto. Questo almeno, era quello che Don Erminio avrebbe voluto credere.

Mise in moto il grammofono il dottore, mentre guardava la pioggia cadere sui vetri di quei grandi saloni illuminati. Ma l’alcalde aveva solo musica militare e marcette, al massimo qualche paso doble, e quella era la musica di un uomo senza gusto.

Dapprima incuriosito ne ebbe presto noia, su dottori, e fermo’ l’apparecchio.
Rimase in silenzio

PLINK PLINK PLINK

faceva la pioggia contro il vetro e questo sembro’ prendere la sua attenzione e rasserenarlo.

Frattanto, sotto quella pioggerellina battente, una pioggia fine e fitta che offuscava la visibilità, Aurelia attraversava la vallata brulla che separava la compagnia bananiera Majestic dalla carretera , poco distante dal rio Cuba. Fu li’ che vide degli strani movimenti, dei campesinos, che andavano in gruppo e sembravano scomparire dietro un masso.

“Il cunicolo 7!” penso’ Aurelia.

Il cunicolo 7 era uno dei cunicoli segreti scavati dai ribelli a partire dalla miniera d’argento. Si favoleggiava su una porta segreta, che avrebbe potuto fare entrare uomini e perfino cavalli e carri, per accedere alla miniera abbandonata, che, qualcuno giurava, era abitata.
Ma nessuno aveva mai trovato questa famosa porta, questo pertugio segreto.

Adesso Aurelia aveva visto con i suoi occhi, delle persone scomparire dietro un enorme masso bianco. Lucido per la pioggia. E aveva riso tra sé e sé. Un altro dei segreti che lei avrebe custodito. Era bravissima in questo.

Rise e senti’ una fitta alla parte sinistra del volto. Il viso, a parte in certi momenti, non le doleva quasi più, e sebbene l’occhio fosse arrossato come giorni prima sembrava che gli sciacqui disinfettanti facessero il loro effetto.

Prosegui’ il suo cammino verso il villaggio immersa nei pensieri. Da quando Alvino aveva fatto il sogno era preoccupata.
Temeva di essere inadeguata, come avrebbe potuto aiutare “il predestinato”? Lei, ora si rendeva conto veramente, non aveva strumenti, se non la sua esperienza e le cose che aveva letto. Ma tutto questo era davvero poca cosa e non si sentiva tranquilla.

Fu all’imbrunire che le si pararono davanti diversi ragazzini dall’aria poco rassicurante. Avevano catene e mazze che solitamente usavano per i giochi da funambulo ma che adesso impugnavano come armi.

Donna Aurelia rallento’ il passo. E loro la attorniarono.
Si sentiva in pericolo e non fece neppure a tempo di pensare cosa fare che un paio di loro le si avvento’ contro. Elmer e Erwin erano feroci, e la buttarono a terra mordendole una mano e un braccio per farle mollare il sacco che cercava di proteggere. Lei si difese ma uno dei ragazzi le sferro’ un pugno in volto e Aurelia battè la testa e perse i sensi.

Fu derubata di tutto. E rimase li’ stesa in mezzo alla carrettera, mentre i ragazzini si allontanarono cantando una canzoncina in coro. Il duca di porcellana rideva e dirigeva il coretto.

“Bravi ragazzi, very very well”, diceva allontanadosi verso la Piana do Diablo.

ARGENTO! (capitolo 19)




I suoni disarticolati non li capiva minimamente ma il senso di quell’abbraccio era chiaro, chiarissimo.
Voleva dire: “mi hai salvato la vita, grazie.”
Questo è quello che Emiliano Maraboto, cui gli squadroni neri avevano strappato la lingua, disse a Vladymir Andrey Rostropovitch nei cunicoli della miniera abbandonata.
Era ancora prigioniero, Vlad l’ipnotizzatore, ma si senti’per un attimo rincuorato. Poi vide, nel buio di quelle catacombe, decine e decine di campesinos, vestiti di bianco,che discutevano animatamente.

“Di che diamine parlano?” chiese alla bella Lupita Maraboto, che non lo perdeva un’attimo d’occhio e gli teneva due colt puntate ad altezza cuore.

“Discutono del tuo destino. C’è chi vorrebbe impiccarti e chi non è del tutto d’accordo.”

“cos…?”
la domanda fu soffocata da quell’arsura che prese all’improvviso il picaro. Tossi’ un poco, e si passo’ un dito dentro il colletto, per allentare l’abbottonatura divenuta di colpo opprimente. Quindi si tocco’ le fondine ascellari solo per constatare, ancora una volta, che era disarmato e si senti’ nudo, di una nudità tale che non aveva mai conosciuto prima di allora.

G'nossen tsum emess, aggiunse tra sé e sé. "lo starnuto conferma la verità."

Tese l’orecchio per comprendere l’andazzo. In sostanza la resistenza dei campesinos ipotizzava un gesto forte, un segnale inequivocabile per gli uomini del governo: non erano disposti a subire a lungo.

Impiccando lo straniero si mostrava che la posta in gioco era alta. Ogni latifondista, o militare, o nemico dei campesinos avrebbe fatto quella fine.

D’altra parte c’era chi, come Emiliano, considerava il picaro suo salvatore e trovava ingrato quel trattamento. Ma questo era letto dai più come un atteggiamento del tutto sentimentale, poiché era chiaro, che lo straniero era uomo bianco, amico dei bianchi, intrattenitore dei bianchi, e degno rappresentante di quel colonialismo che faceva la rovina del Parador, con le sue compagnie bananiere, del cacao o del caffè provenienti dall’America del Nord.

Lupita traduceva l’opinione del fratello Emiliano ma Vladynir Andrey Rostropovitch lesse nei suoi occhi nerissimi di soldadera che se fosse dipeso da lei lui avrebbe penzolato in Plaza de la Libertad.

E per quello, per quella determinqzione spietata che gli sembro’ di cogliere, a dispetto di ogni logica e ogni buonsenso, la amo’ ancora di più.
Era una forza d’animo titanica, purissima, davanti alla quale Vlad non poteva far altro che soccombere.
Incapace, com'era, di assecondare i suoi stessi precetti la "bellezza angelicata" del luogo si era impadronita della sua anima e vi aveva scavato dei languori abissali.

Vedeva il suo proprio corpo come un tempio dell’amore. Le sue ossa erano cave e il vento di una passione sconsiderata soffiava i canti delle sirene che avevano ammaliato prima di lui Ulisse ecc. ecc (tendeva a un eccesso di lirismo quando si sentiva ispirato).

“Ma chi sei? Chi sei tu che mi insegni cos’è l’amore?”

Udiva questa vocina risuonare nel nero del suo cranio. E cosi’, nonostante la discussione infuriasse, e il tempo che passava non lasciasse presagire nulla di buono, sul suo volto da ebreo malinconico si dipinse un sorriso strambo.

Aveva fatto un patto con il suo Dio; no, non era ingordo, questo poteva assicurarlo, e dunque quando sarebbe venuto il momento, e questo era un patto, voleva sentire un segnale, un suono qualunque che lui avrebbe riconosciuto. "E' ora di andare." Questo gli avrebbe detto.
DIN DON.
E questo suono gli avrebbe dunque permesso di arrangiare le cose, mettere a posto la sua coscienza e chiudere le imposte della sua vita di picaro, predisponendosi a raggiungere i suoi numi per il lungo eterno abbraccio. (era uomo ordinato, dopotutto).

La notte sogno’ di volare sopra un bretzel gigantesco, di quelli fragranti che cucinava sua madre, ma enorme, cento volte più grande. E volava lieto, con il vento sul viso, mentre vedeva la sua vita dall’alto. Le sue donne, che si erano date convegno là sotto, salutavano e gli mandavano baci, e poi prendevano la mira e sparavano contro il bretzel. Ma non c’era minaccia, né pericolo, solo allegrezza. Gioia, la gioia di un bambino che gioca e impara, capisce e cataloga le esperienze che hanno fatto di lui un uomo.

PAM PAM PAM

Le schegge del bretzel fluttuavano nell’aria e lui le prendeva e le mangiava ed era il bretzel migliore che avesse mai assagiato. Sissignore.


Poi rigenerato da quel sogno apri’ gli occhi e constato’ di essere ancora prigioniero nella miniera d’argento. Il suo cavallo era di fianco a lui, che mangiava.

“Scusi Herr Doktor, mi ero appisolato” disse. E si occupo’ di lui, lo scarico’ dei bagagli e slaccio’ la sella.

Mentre cominciava a strigliarlo si accorse delle voci dei campesinos che ancora discutevano sul suo destino.
Poco lontano la folla sembrava infittirsi. Ma non gli fece alcun effetto tutto questo.

Cosi’ prese la valigetta da lavoro e si diresse verso quella piccola folla di contadini ribelli.
“Amici cari” comincio’ ad arringare “tanto vale porre fine a questa discussione…”
in breve li informo’ del suo patto con il Dio degli ebrei. Loro ascoltavano attenti e compresero che lui non era disponibile a morire perché semplicemente non aveva udito nessun suono o annuncio di morte imminente. Niente DIN DON = vivere ancora. Questi erano i patti.
Quindi era del tutto inutile intromettersi nelle decisione divine. Che quelle per l’appunto tali erano.
“L’uomo crede di potere determinare il proprio destino, ma senza l’ausilio del divino si puo’ molto poco. Chiamatela fortuna, o fato, Dio o caso. Chiamatelo come volete…”

PEM!

E fu in quel punto che qualcuno spense la luce a quello sguardo celeste e un fischio fortissimo sibilo’ per le orecchie di Vladymir Andrey, l’ipnotista. Quando il suo corpo si accascio’ sentiva un dolore forte e secco alla tempia destra e rifletteva sul fatto alquanto disdicevole che stava diventano un’abitudine usare lil suo cranio come bersaglio.

Il silenzio duro’ quanto? Non era in grado di dirlo.
Sapeva solo che il sibilo era ricominciato di colpo quando lui aveva aperto gli occhi. Tutto girava.
Lupe lo fissava. La vedeva al rovescio, un bel volto incorniciato da due fasce di capelli corvini. E due occhi lucenti che lo osservavano senza la durezza abituale, con curiosità quasi.
Lupe, Lupita.

“Ma chi sei? Chi sei tu che mi insegni cos’è l’amore?”
senti’ ancora la vocina e non seppe resistere.

Lupe, lupita.

In un secondo la stava già baciando.

19 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 18)




“Acqua calda!”

In genere questi ordini erano accompagnati da uno schioccare di mani.

Clap Clap

L’uomo dalla pelle di porcellana entrò in una tinozza di ottone posta al centro della cabina. Fu rovesciata l’acqua e i ragazzini cominciarono a frizionare, massaggiare, e insaponare abbondantemente, fino a che l’uomo disse perentorio…

“Risciacquare”

Clap Clap

e si alzò a godere di quello scroscio di acqua calda e pulita che lo liberò dalle schiume deodorate di Marsiglia e Gibilterra.

Clap Clap

“Asciugare”
Comparvero 6 asciugamani che sfregarono quel corpo secco da sardina de Carpazi.

Il dondolare della nave non disturbava quel rito quotidiano: erano in navigazione da oltre un mese e mezzo e dopo la prima settimana di sciabordio, gli stomaci battezzati da una tempesta, si adagiarono al ritmo binario delle onde.
“Una polka” penso’ l’uomo, che come era nato nella culla di quella musica.
“L’oceano batte a ritmo di polka”.
In questi pensamenti assorto si sentì ordinare:

“Olii”

Clap Clap

ed ecco un fluire di fiale ed essenze che lo unsero e profumarono. E resero la sua pelle, tendenzialmente secca e squamosa, nuovamente elastica e brillante.

Vita felice del duca di porcellana, uno che aveva nel sangue il trambusto e l’impazienza, quella sorta di insoddisfazione sorda e ribollente che porta gli arti a muoversi a deambulare nervosamente, poiché la terra brucia sotto i piedi. Muoversi spostarsi; navigare sulla terra se non è consentito negli oceani. Una stirpe gitana che non disdegna il belletto.


E fu unto e profumato.

“Basta”

Clap Clap

“apparecchiare”.

Mentre il duca di porcellana , che duca non era affatto, ma porcellanoso, questo sì, indossava i suoi damaschi magiari i ragazzini diligentemente fecero comparire sul tavolo da pranzo della cabina 203 ogni ben di Dio:
pane di frumento e segale, pane bianco non salato, brioches, formaggio, uova sbattute, latte, tortillas, The al bergamotto e the nero di Cina. Questo e ogni cibo concepibile dalle fantasiose meningi del cuoco della goletta Simon Bolivar furono sottratte con perizia da mani minuscole e sensibilissime. Di solito lercie ma quando si trattava di cibo nettate in ogni minimo dettaglio.


Norbescu, il duca, aveva loro insegnato le buone e le cattive maniere, fedelissimo al precetto che:
“ i bimbi sono dei maiali cui, com’è noto, piace rotolarsi nel fango”.

E ce li lasciava rotolare e giocare volentieri (bisogna che ci si compiaccia del vivere fisico dopotutto) sino a quando non era il momento di avere a che fare con il cibo e allora: P H I L O S O P H Y.

Il primo capitolo recitava chiaro e tondo quanto segue.

CAPITOLO UNO
il cibo lo si rispetta e contempla; lo si tocca con mani immacolate, lo si dispone, secondo composizioni artistiche, che chi ha fame si nutre anche di sguardi.

Il secondo e conclusivo capitolo di quel decalogo incompiuto recitava ancora

CAPITOLO DUE
E si mangia secondo l’etichetta che il cibo impone, non ci si ingozza, ma si mangia volentieri secondo ameni rituali.


Questa e altre bizzarrie Norbescu imponeva a quei marmocchi diseredati, comprati o rapiti da orfanotrofi, genitori sciagurati e indigenti.

Erano la sua famiglia, la sua fortuna, il suo passatempo e il suo futuro.
Loro erano funamboli abilissimi, giocolieri e borseggiatori di prim’ordine. Parlottavano in un gergo misto di lingue diverse e dialetti raccatati qua e la, per non farsi bene comprendere da orecchie indiscrete.
Anche perché, com’è naturale, non è che avessero maturato studi indicibili. Ed erano a dispetto di ogni sentire sentimentale, feroci, feroci come solo il candore di un bambino può portare ad essere.

Quel giorno di agosto erano lì, che mangiavano compìti, con maniere da piccoli gentiluomini ed erano perdutamente felici, inconsapevoli che la vita avrebbe potuto per loro essere diversa, magari meno variopinta ma diversa e perfino assennata, aggettivo questo che non apparteneva in alcun modo alla grammatica personale di Leopold Degla Norbescu.

Fu ad un tratto che si udì un sibilo acutissimo, era il fischio che i marinai conoscevano bene e che era segnale di inizio della manovra di attracco.

Dall’oblò, con una certa quale soddisfazione il duca di porcellana guardò, con l’unico occhio buono, stagliarsi la cattedrale di Mammarranca.
La goletta Simon Bolivar navigava nelle acque putride del porto, le stesse che vedevano tutti i giorni la visita di Donna Aurelia.

“come sono belle le navi” pensava lei al vedere quel trenta metri ammainare le vele e predisporsi per l’attracco.

Quella vecchia amava l’idea di viaggiare. E adesso guardava il mare differentemente e le sembrava di capire meglio anche i venti e le sabbie, che parevano dotate di una vita propria e di una grazia superiore a quella umana.

E fu grande la sopresa per la cittadinanza quando, una volta calata la scaletta, fecero la loro comparsa una mezza dozzina di marmocchi funamboli. Elmer scese camminando sulle mani, mentre Herb sputava fuoco a destra e a manca. Edward lanciava e riprendeva delle mazze infuocate senza battere ciglio, Erwin inghiottiva una spada più lunga di lui.
Loro e gli altri ragazzini scesero e poi, subito dietro, Norbescu; fiero e impettito.
E fu subito cappannello attorno a loro. Poi marinai e altri passeggeri si dispersero mentre i giochi circensi sembravano richiamare ricchi e poveri, bracconieri e diseredati, contadini e latifondisti desiderosi di dimenticare lo spettacolo sanguinario e violento che si era abbattuto sul villaggio in quei tristi giorni di estate.

Solo Donna Aurelia rimase, del tutto indifferente allo spettacolo,intenta a rimirare i legni della goletta, e le vele e la solidità malgrado la forma affilata. E le sembrò che quella nave portasse speranza e che in quelle vele fossero rimasti impigliati venti lontani dell’oceano e che questi venti avessero nuove voci rispetto a quelle da lei sino ad allora uditi.

17 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 17)




Alvino d’estate pativa maggiormente perché con il bel tempo i bambini del villaggio organizzavano i tornei di pallastraccia, o giocavano alla caccia con archi e frecce, o si rincorrevano e tiravano i sassi. A lui quei giochi piacevano tutti moltissimo ma ne era escluso.
A causa della sua malattia si trascinava.
La polio aveva attaccato il suo midollo spinale, e ucciso la sua infanzia sin dai primi anni.
Questo ne aveva fatto un bambino introverso e incline alle fantasie. Precoce, aveva imparato a leggere a soli quattro anni; malgrado ciò amava farsi leggere le favole da nonna Aurelia.

Le favole.

Questa cosa gli ricordava un tempo sospeso e felice, quando il suo corpo non aveva ancora manifestato i primi segni del “dono” ed entrambi vivevano dall’altra parte della piana, a Su Puntori.

La sua vita era tagliata in due, segnata da quel prima e quel dopo che lo aveva influenzato fortemente.

Poi una sera, di ritorno da una passeggiata a osservare le lucciole, un gatto, attraversandogli la strada si era incurvato e gli aveva soffiato contro, per poi fuggire come una saetta.
E quello era stato il segnale per Donna Aurelia; il primo sospetto, trasformatosi poi in certezza, il bambino aveva “il dono”.
Così lei aveva imparato a scorgere i primi lineamenti ferini dietro quel sorriso di chi non ha ancora provato il dolore.

Poi, a tre anni, la luna piena aveva mostrato nettamente il suo influsso. E Alvino una sera di maggio, si era ricoperto di una peluria soffice, un primo timido pelo, una lanugine, ancora molto umana.
La donna aveva dissotterrato il libro nero e cominciato ad annotare, che lei era addestrata sin da bambina, come tutte le Picocca, nell’evenienza. Era, lei stessa, una predestinata, e doveva vegliare su quel cucciolo di uomo lupo.

Luna nera, luna piena. I lineamenti avevano cominciato a mutare visibilmente attorno ai 5 anni ed erano arrivati i primi terrificanti dolori.
Lacerava pelli, squadernava ossa e squarciava muscoli, la mutazione.

Alvino si contorceva dal dolore, rotolandosi per terra, in preda ai singulti, e lei atterrita consultava il taccuino dei misteri alla ricerca di qualche parola, di un’indicazione che le dicesse cosa fare. Doveva fare attenzione, questo dicevano le righe antiche, attenzione, un lupo mannaro è pericoloso per chiunque, pure per chi lo ama.

I lupi Mannari, macchine perfette di un aldilà insondabile, celavano, così insegnava il libro nero, una sostanza nella ghiandola pineale, che sarebbe con il tempo servita per alleviare il dolore, una sorta di morfina naturale. Ma la scienza arcana era del tutto istintiva, a nulla servivano spiegazioni logiche, poiché era necessario che un uomo lupo imparasse a servirsene (natura matrigna) a prezzo di sofferenze indicibili.
Poi, una volta superata questa prova, dopo qualche anno, era arrivata la gioia. E Alvino, una volta mutato saltava e si arrampicava con una forza straordinaria, dimostrando come fondata la teoria secondo la quale la sua menomazione scompariva con l’avvento della dimensione animale.

Donna Aurelia ne aveva sorriso compiaciuta. Non era più zoppo? Una piccola rivincita nei confronti di un Dio distratto o smemorato. Che mali aveva mai compiuto quel figlio per essere intaccato dalle febbri della poliomielite e dalla perdita dei genitori?
D’atra parte il “dono” aveva fatto di lui un adulto. Un adulto di neppure quattro anni.

Poi comincianoro i sogni, e con questi i presagi. E invece avrebbe voluto rimanere bambino per sempre, Alvino. E starsene, notte dopo notte, insonne a spiare i disegni delle ombre della candela o della lampada a carburo, sulla parete, mentre la voce della nonna si arrochiva e affievoliva sempre più fino a scomparire in un russare cavernoso, rapita dal sonno profondo mentre gli leggeva quelle fiabe.

Gli piacevano i fratelli Grimm, anche se lo impaurivano moltissimo, anzi forse proprio perché lo impaurivano moltissimo. Ma il momento che preferiva era quando Donna Aurelia, molto stanca, abbassava le difese e lui poteva impadronirsi del famoso taccuino e leggere le gesta dei suoi avi.

Era allora che le sue fantasie di bambino malinconico si scatenavano e sognava che sarebbe diventato un uomo lupo leggendario, il più grande di tutti.


Una goletta.

Proveniente dall’inghilterra del nord, teso l’orecchio su leggende e dicerie, aguzzato lo sguardo verso prospettive di ricchezza possibile, era assorto, un nefando, in navigazione verso la piccola isola nell’America del Sud, nota anche con il nome di Parador.

Nato a Bucarest trentasette anni prima Leopold Degla Norbescu, detto il guercio, a causa di un occhio di vetro che lo rendeva ora enigmatico ora spaventoso come il volto di una bambola di porcellana, assaporava il gusto di una nuova splendida caccia tutta da costruire.

Non era un bracconiere lui, e non conosceva il sapore dell’assassinio. Ma i suoi crimini erano forse ancora peggiori.
Viaggiava di villaggio in villaggio con una ciurma di marmocchi luridi e violenti, dediti a giochi circensi e accattonaggio. Ed era temuto, ma anche osannato, che dove lui metteva piedi c’era sempre spasso e sperpero. E in Parador c’era già venuto. Poi cacciato e adesso, caparbiamente, stava facendo ritorno schiavo dei sogni malvagi che gli divoravano l’anima.

In Parador erano noti quelli della sua stirpe bislacca sotto il nome de “is cumprachicos”.

E fu sognando un volto di porcellana dallo sguardo di vetro, a migliaia di migia di distanza, che Alvino si svegliò si soprassalto.

"Aaaahhhhhhhhh" urlò, e svegliò Donna Aurelia.

16 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 16)




Maneggiava un tagliacarte in argento e madreperla, per aprire una busta appena giunta dal dipartimento della difesa. Il grammofono suonava una marcetta militare e malgrado questo, contrariamente al solito, era di pessimo umore, a causa forse, delle ultime notti insonni. Lesse compiaciuto il documento e lo posò sulla scrivania, poi ando’ verso lo specchio del settecento. Vide qualcuno che gli somigliava ma che non poteva essere davvero lui.

“ Stai perdendo lo smalto, vecchio mio”

Disse a sé stesso.
Aveva bocca secca, labbra screpolate e un colorito esangue. La divisa da Alcalde, sbottonata, lasciava intravedere lividi ed ecchimosi ovunque, nel petto e nel costato.
Una macchia violacea con la forma dell’Africa si estendeva sul ventre.
E questa cosa lo faceva quasi sorridere perché lui odiava l’Africa.

“ passerà e tornerai quello di un tempo”.

Disse al suo riflesso, e poi d’un tratto, tutto questo conversare fu interrotto dall’ingresso di un attendente.


“Eccellenza, il prigioniero è qui”.
“Fatelo entrare”. Disse l’alcalde stancamente.
Fece il suo ingresso Erminio, il dottore, giacca e pantaloni frusti, come di chi ha dormito vestito, e barba non rasa.

“di cosa sono accusato?”
chiese senza lasciare il tempo all’alcalde di cominciare con il suo cerimoniale mellifluo.

“Madre de Dios, dottore, che atteggiamento ostile. Di cosa è accusato? Di niente, almeno per il momento.
“Voglio tornare al mio ambulatorio, ho del lavoro da fare”.
“ Avete del lavoro da fare anche qui dottore. Avete un paziente. Sto male, fate il vostro dovere, curatemi come fate con i piccoli campesinos”.

“ E se rifiutassi?”
“Rifiutarsi, è perché mai? Infrangere il vostro giuramento di Ippocrate non farà di voi un uomo migliore, né, temo, un eroe, ma un medico morto. Diventereste uno dei tanti perché senza risposta di questa rivoluzione ipotetica.”

“ A scanso di equivoci, qualora foste stanco di vivere, un gesto sconsiderato da parte vostra porterebbe alla morte di una serie di sovversivi che dimorano in cella.”

“facciamo un accordo…”
“Non mi fraintenda caro dottore, lei non è in grado di dettare alcuna condizione, conosco le sue idee anarcoidi. Sinora le ho risparmiato le torture solo perché ho bisogno di lei. Ma non ne abusi. Sia saggio. Sappia che un suo comportamento assennato sarà apprezzato. Sappia che forse servirà a salvare qualche vita.”

“vorrei poter credere che avete una parola.”

Fu questo che Don Erminio commentò e che l’alcalde fece finta di non udire.

“Cosa vi serve?”
“dell’acqua calda”
L’alcalde suonò un campanellino e si fece portare diversi catini di acqua calda.
Don Erminio cominciò la visita. Palpò il ventre, nella parte destra e poi in quella sinistra.
“Fa male qui?”
“ Sì, fa male.”

“Hm”


“ E qui?”
“Sì. Molto. E’ aumentato da ieri”

“Hm”

Rimaneva assorto e questo riserbo non faceva che innervosire ulteriormente l’Alcalde, che si sforzava di pazientare ma che, in quella guerra di nervi, pareva decisamente a mal partito.

“Allora? Cos’è?”
“c’è un versamento”
“E allora?”
“ Trauma chiuso addominale”
“ Vale a dire?”
“credo che si sia rotta la milza”
“ ha delle fitte?”
“A tratti delle fitte lancinanti”

“ C’è bisogno di un’operazione”



Frattanto si udirono dieci colpi di fucile. A cadenza regolare. Poco distante il prete, Don Calatayud, stava svolgendo una funzione in latino, e nessuno degli astanti sembrava capire una parola. Al funerale di Billy lo gnomo, infatti, c’erano solo i bracconieri inglesi. Che già non parlavano molto di spagnolo o di creolo, figurarsi di latino.
Quando ne ebbe abbastanza delle cantilene in quell’idioma incomprensibile prese la parola Colmish, interrompendo la funzione.
“ ecc. ecc., grazie prete, ne abbiamo abbastanza”

Ispirato da quella funzione e dalla sete che gli imponeva di andare a rifocillarsi al più presto alla “Volpe d’argento” Colmish si produsse in una orazione funebre che sarebbe stata ricordata per anni a Mammarranca e dintorni. Poco prima di buttare una manciata di terra su quella bara da bambino pronunciò queste sentite parole:
“non ti abbiamo mai potuto soffrire Billy, tu e le tue manie di grandezza, se mi è consentito sfottere. Ma chi ti ha tolto di mezzo ci ha anche defraudato della nostra meritata ricompensa. Sissignore. E tu dopotutto ci hai insegnato una cosa. Noi siamo cacciatori, bracconieri. Gente che vive nella natura, che respira gli odori, meglio dei nostri segugi. Ora qui il clima è inospitale, d’accordo, ma che diamine, ci hai dato una vera lezione. Avevi ragione tu, non ho vergogna di ammetterlo, dannato gnomo. Noi siamo fatti per la caccia, non solo per la baldoria, anche per quello, siamo uomini di mondo, no? Ma siamo fatti per la caccia, per Dio. Per cui Billy, che tu sia stramaledetto, Billy, noi te lo giuriamo: la pelliccia di quel dannato Lupo Mannaro te la conciamo personalmente. E con quella noi, è un giuramento, questo, prete benedicici, noi dicevo, ricopriremo la tua tomba. Bah. E ora sparisci Billy, ritornatene all’inferno. Così sia.”
Tutto fu proclamato con la solennità di cui “Sir” Colmish era capace, in inglese, e sugellato da due Hurrah scanditi in coro dai bracconieri. Cui seguirono altri dieci colpi di fucile.
E mentre cominciarono i rintocchi della campana che suonava a morto cominciò a cadere una pioggerellina sottile che accompagnò la bara coperta di terra fin quando Billy lo gnomo scomparve per sempre.

Non fece a tempo a sentire i rintocchi della campana l’alcalde che chiuse gli occhi sotto l’effetto dell’anestesico. Prese i bisturi disinfettati e cominciò a incidere. Un lungo taglio verticale che attraversava il corpo dal pube allo sterno.
E in quel preciso momento, con le prime gocce di sangue che apparivano sulla linea del taglio, l’alcalde non era più per lui un simbolo del potere, un nemico da combattere, un uomo senza morale, ma semplicemente un paziente per cui lui aveva il dovere di fare tutto il possibile.
A un tratto lo guardò. Guardò quel volto pallido, scavato dal tempo e vide un’espressione sofferente, per una volta autentica. Spogliata di quei cerimoniali barocchi dietro i quali amava nascondersi.
Era, una volta per tutte, banalmente, uomo. Vulnerabile e minuscolo come tutti. Una particella di pulviscolo nell’universo” Così parve a Don Erminio mentre gli asportava la milza, a pezzi, dal ventre.

14 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 15)




Avava fatto uno strano sogno, Alvino. Aveva sognato che dormiva su un letto e non su una amaca e che sotto a quel letto enorme di ciliegio intarsiato c’era un passaggio segreto. Quello era un sogno ricorrente e Alvino, lo sapeva, quando questo avveniva, doveva avvertire sua nonna.
Donna Aurelia era assorta,intenta a infornare dei biscotti alla cannella. Preferiva infornare a sera, solitamente, poiché la calura del giorno sommata alle temperature del forno rendevano l’atmosfera irrespirabile. Ma il pensiero che il dottore non facesse ritorno la innervosiva a tal punto da sconvolgere abitudini consolidate in decenni.

“Nonna, ho fatto il sogno.”

La donna infilo’ la teglia nel forno e si asciugo’ le mani nel grembiule.

“Sentiamo” disse.
“C’era il letto intarsiato. Io mi infilavo sotto, era buio.”

“Era caldo o faceva freddo?”

“No, era estate, caldo.”

“Mh mh, vai avanti. C’era l’angelo?”

Ogni elemento del sogno secondo la scienza tramandata dai Picocca, aveva un preciso significato premonitorio. Donna Aurelia prese da un piccolo scrigno delle antiche ossa di pollo. Le mischio’ e le lascio’ cadere su un tappetino di velluto rosso.

“Hmm” soggiunse. E Alvino, avvezzo a quel rituale riprese.

“Io ero sotto il letto ma potevo vedere la stanza…”

“C’erano delle finestre?”

“No, era tutto buio, nonna”

“E poi? Vai avanti”.

“A un certo punto ho attraversato il passaggio segreto e mi sono ritrovato in una sala”

“ah”

“Era una sala Piccola, come questa grotta. Ma tutto brillava. C’erano migliaia e migliaia di monete alle pareti”

“La sala d’argento;” lo interruppe Donna Aurelia.

“Si nonna era la sala d’argento. E faceva male.”

“Avrei dovuto capirlo. E’ per questo che battevi i denti nel sonno?”

“Si’ perché a un certo momento tutto è diventato freddo. E c’era un rumore metallico assordante, come se le monete alle pareti vibrassero. E la luce filtrava dietro queste monete, una luce bianca e vivissima. Poi una figura nera si è fatta avanti.”

“Una figura nera…hmm. Sei sicuro Alvino? Era l’angelo nero?”

“Si’ nonna”.

“L’angelo nero è segno straordinario e terribile. E poi cos’è successo?”

“Poi mi sono svegliato.”

“Ho sentito come un’esplosione secca nelle orecchie e mi sono svegliato.”

La nonna rimase un momento a riflettere. Era turbata. Poi prese il vecchio taccuino e comincio’ ad annotare.
Erano anni che il sogno si ripeteva, sin da quando, a tre anni, Alvino aveva manifestato i primi segni del “dono”, e ogni volta sembrava più lungo.
Era necessario verificare i dettagli e saperli interpretare insieme al lancio delle ossa di pollo.
L’Angelo e le finestre, purché aperte, erano apportatrici di buona sorte. (Ameno che le ossa non componessero una croce)
La stanza d’argento era segno rarissimo (Alvino l’aveva sognata solo una volta, sette anni prima) e di solito annunciava grandi sconvolgimenti nel mondo degli uomini, ma perfino terremoti o catastrofi naturali in genere.
La comparsa dell’angelo nero era presagio funesto, temuto nell’antichità come foriero di morte.
Donna Aurelia lancio’ ancora una volta le ossa, era cosi’ assorta che non ascoltava neppure più Alvino. Lancio’ e si mise a bofonchiare qualcosa ta sé e sé, fino a quando Alvino non pronuncio’ queste parole:
“E poi per un attimo ha aperto gli occhi. Credo che mi abbia guardato…“

La vecchia riemerse di colpo da quella concentrazione solida, come se avesse udito di colpo un’esplosione o come se qualcosa di estremamente minaccioso le si fosse parato davanti.

“cos’hai detto? Ripeti”
“Ho detto che per un attimo ha aperto gli occhi”.

“E tu?”

“Io ho sentito freddo. Molto freddo”.

“Sei certo? L’uomo nero ha aperto gli occhi?”

“Si” nonna”

“ti ha guardato?”

“Credo di si, io ho visto i suoi occhi”.

Prese il taccuino e comincio’ a sfogliarlo febbrilmente, alla ricerca dei sogni degli avi.
Erano secoli che un lupo mannaro della genia dei Picocca non sognava lo sguardo dell’angelo nero nella sala d’argento. Un brivido la percorse , dalla testa ai piedi, quando il libro nero le confermo’ il fosco presagio.
Si attendeva un grosso sconvolgimento nei giorni a venire, qualcosa che lei forse non avrebbe saputo affrontare.
Per secoli lo scopo del libro nero era stato quello di registrare gli avvenimenti alla ricerca del minimo indizio. Costanti e variazioni erano state annotate e comparate attendendo il segno che avesse potuto confermare la nascita del predestinato.
E per secoli le donne dei Picocca avevano commentato, sollevate, che il segno non si manifestava. Non c’era il predestinato tra i baciati dal “dono” che seguivano come balie impenitenti.

Sogno dopo sogno si era creata una lunga tela, una ragnatela lunga secoli che legava il mondo dei presagi di quella genia di lupi mannari.

Un uomo lupo all’altro, in una ghirlanda onirica, attraverso il tempo. Si era perfezionata, la visione, attraverso il tempo. Si era perfezionata la visione, facendosi più chiara attraverso gli occhi dei dormienti e le pareti luminose avevano preso corpo, come un dagherrotipo finalmente a fuoco, adesso si vedeva distintamente, erano monete d’argento quelle che ricoprivano le pareti. E poi, secolo dopo secolo erano apparsi i suoni.
Vibravano, quell’insopportabile tintinnio metallico che tendeva le ossa, faceva scricchiolare cartilagini, lacerava la pelle, scalfiva denti, dettando quel battito grottesco indifferente di stagioni o temperature. Il colorito diveniva bruno, opaco, all’occorrenza, pericoloso indizio, che durava qualche giorno o qualche ora a seconda delle fase lunare. Ed era proibito ingerire qualunque cibo, e in special modo la zuppa di fave dato che era noto il legame di queste con il mondo dei morti.

Letto che ebbe, Donna Aurelia, ripose il taccuino e guardando verso Alvino disse, quasi sovrapensiero:
“Ci aspettano giorni difficili”.

12 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 14)




Quel sibilo che gli fischiava nelle orecchie non capiva se era vento o una voce di donna. Anzi gli sembrava che un grillo stesse pascolando tra le rughe del suo cervello; l’effetto era uno strano formicolio, e non era piacevole.
Poi il sibilo si fece continuo e senti’ una specie di scarica.

Qualcuno aveva chiuso le imposte all’improvviso. Un temporale elettrico che aveva ceduto il passo alla polvere.

Tanta polvere che si sollevava e trascinava cosa? Una lobbia. La lobbia era un cappello che lui aveva sempre amato. Adesso che ci pensava bene quella era la “sua” lobbia, una lobbia fatta da un cappellaio italiano, un cappellaio napoletano precisamente, che aveva avuto l’ardire di giocare e perdere tutto con lui. Tutto, tutto, tutto.
“Buongiorno, cosa costa una cosa del genere?”
“ Ah una lobbia…le piace la lobbia, un cappello elegante…”
Era successo due anni prima.
Egidio Iappariello, incontrato ad Acapulco.
Gli aveva fatto una lobbia e poi aveva perso. Avevano giocato trentadue giorni e trentatre notti e poi quello aveva perso perfino la moglie che era partita, perché un uomo del genere è un dissennato e lei con un dissenato divorato dal gioco e dalle superstizioni non voleva più avere a che fare.
WOOOOSHHH
Se lo ricordava ancora il sorriso amaro e napoletano del cappellaio. Ma loro si sa, hanno un’arte particolare per affrontare la malasorte. La baciano in fronte e sorridono e quella si dilegua, sembra più lieve.
Cantava una canzone composta da un pescivendolo. Quando lui, a cavallo di Herr Doktor, con la sua nuova fortuna riparato da una lobbia si era allontanato tra le polveri del Sud America.

Questo, il vento e i ricordi gli facevano pascolare per le pieghe del suo cervello . Sino a quando non apri’ lentamente uno e poi due occhi e vide quel che vide.

Vide due piedi, scalzi e minuscoli. Sporchi. Appartenevano a due bambini, che lo guardavano e ridevano. Sollevo’ il capo dolorante. E ne vide un altro paio, di bambini, poco dietro, vicini a Herr Doktor, che si stavano scolando la sua provvista di Armagnac, e un quinto che (eresia delle eresie) sfogliava la sua copia dell’Odissea. E questo lo fece perfino infuriare più del fatto che la sassata aveva fatto un segno sul feltro della sua lobbia.

Si rimise in piedi, dolorante, era caduto da cavallo.
Inoltre, si accorse, la marsina era sbottonata e qualcuno gli aveva preso le due colt.

“Alzati gringo”.

Quel modo di chiamarlo non gli era per nulla simpatico, lui non era né gringo né forestiero. Come un amante tradito adesso guardava la donna che gli rivolgeva la parola. Non senza una punta di amarezza, che qui l’unico autorizzato a barare, e con moderazione, era lui.
La guardo’ e rimase commoso. Adesso che aveva l’espressione accigliata era ancora più bella. Era Lupita Maraboto.
Che gli puntava le sue pistole contro.
“shynem danke in pepek” disse. E comincio’ a spolverarsi.

“muoviti lentamente gringo e comincia a camminare”.
“Ma come, salvo tuo fratello dalla forca…”


I bambini portavano Herr Doktor per le briglie. Avevano smesso di bere l’armagnac e riposto i libri nelle sacche, cosa che lo aveva calmato. Lui camminava tenendo la lobbia il mano.
Con l’altra si accarezzava la testa indolenzita.

Al fondo della stradina polverosa una costruzione bassa, ricoperta di calce bianca. Ci si avvicino’ e la porta si apri’. Qualcuno lo invito’ ad entrare. Nel bel mezzo dell’unica stanzetta c’era una botola spalancata.
Vladymir Andrey Rostropovitch si fermo’ e guardo’ la donna. Lei, con le pistole in pugno disse: “scendi”.
Ubbidi’ e si ritrovo’ al centro di un dedalo di catacombe. C’erano dei binari per terra e capi’ subito dove si trovava. Gallerie sotterranee, che avevano costituito il cuore della miniera d’argento. Le gallerie erano scarsamente illuminate, e si sentiva il vento fischiare che costituiva una strana cantilena. Il picaro avanzava, con la mano tastava la parete e disturbo’ dei pipistrelli che si misero a svolazzare per i cunicoli.
Poi all’improvviso qualcuno lo abbraccio’ e puzzava di sudore e alcol di patate.

11 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 13)




Immerso nel canto delle cicale si godeva il primo venticello fresco che soffiava da nord est, leggiucchiando il suo amato Cervantes e lanciando
Plof Plof Plof
un sasso dopo l’altro nell’acqua del fiume.
E stava seriamente pensando, ora si’ ora no, nella totale indecisione, se onorare il grande cedro in riva al Rio Cuba schiacciando un pisolino, dato che la notte prima non aveva chiuso occhio, e che le borracce erano ormai piene.

Il Parador era terra arsa e generosa di polvere e desolazione, ma a lui, al pari di molti altri paesi diseredati del sud del mondo, piaceva immensamente.
Era immerso in pensieri non del tutto sereni, “sto invecchiando, anche un picaro muore in un posto solo, e da fermo”.
Oppure “Dovrei constatare quando il gioco finisce. Dovrei constatarlo in base all’esperienza e in base ai venti che si quietano”.
Ecc ecc.
quando il franare di una serie di piccoli sassi gli fece alzare lo sguardo verso la carrettera sovrastante.

“Regolari”. Disse Vladymir Andrey Rostropovitch. E vide chiaramente un drappello di regolari che si dirigeva a passo deciso verso di lui.

A klog tzu meineh somin! “Madedizione ai miei nemici”, sentenzio’ tra sé e sé

Anni di solitudine sviluppano un senso del pericolo istintivo. Non si perse in riflessioni e monto’ a cavallo .

“conto su di lei, Her Doktor”. Sussurro’.
Her Doktor comincio’ a trottare in mezzo alle poveri della carrettera 56.

PAM PAM

E le pallottole cominciarono a fischiare.

Non che fosse sport praticato di frequente, ma non era certo la prima volta che gli sparavano dietro. Urlavano qualcosa adesso, quelli. Qualcosa che lui non aveva alcuna voglia di comprendere.
Her Doktor filava ispirato al galoppo lasciandosi dietro un nuvolone bianco che rendeva difficile distinguere qualcosa.

“Giddap” disse in linguaggio equino, e abbandono’ la carrettera, per buttarsi in mezzo a viti e palmeti e cercare di rendersi il meno visibile possibile.

Si trovo’ dunque, all’improvviso, a costeggiare i recinti di una fazenda bananiera.

Fu li’ che gli si paradoro davanti alcuni gringos, armati di tutto punto.
“Halt” gli intimarono. In sei. E non avevano facce amiche.
“Vigilantes della fazenda senza dubbio”. Penso’. E tiro’ dritto.

Era giornata in cui, a quanto pareva, molti volevano intrattenersi con lui.

A nechtiker tog! “dimenticatevelo” disse ridendo mentre quelli aprivano il fuoco.
Non rispose eppure era armato ed eccellente tiratore.
Ma quella, lo sapeva bene, era “violazione di proprietà privata” e gli uomini di Don Enrico il senatore, grande coltivartore della Banana Majestic, erano pagati per essere poco comprensivi.

Quel posto benedetto dalla polvere e baciato dai venti cominciava a dimostrarsi innospitale.

Galoppando per qualche miglio si trovo’ immerso in un ‘atmosfera irreale, ad attraversare quello che rimaneva di Coloriu Arrubiu, piccolo villaggio minerario fondato da ingegneri inglesi alla metà del secolo prima.
Non un anima.
E quel che restava di carrelli e binari, carrucole o lampade sembrava cristallizato, corroso dalla salsedine.
Com’era possibile? Una città fantasma a poche miglia da Mammarranca. A poche miglia dai bananeti, dove ferveva la vita.
Si domandava quando il filone d’argento si era estinto, quando mai la compagnia aveva deciso di emigrare per sempre, chiudendo i battenti. Non doveva essere più di una decina d’anni prima eppure sembravano passati secoli.

Scrutando il cielo, mentre beveva un sorso di acqua fresca vide due avvoltoi volare. Brutto presagio. E lui era picaro antico, capace di leggere i segni che il destino disegnava sul mondo.

Il cavallo adesso aveva rallentato la sua corsa. E procedeva a un andatura che gli permetteva una sorta di contemplazione; il sole cominciava a picchiare e gli piaceva quell’atmosfera sospesa tipica dei luoghi riarsi.
Si udi’ un fischio, e poi un altro in risposta.
E non erano uccelli.
Poi, mentre si voltava , per verificare di non essere seguito, fu colpito da qualcosa alla testa e tutto, all’improvviso, si fece buio.



Poco distante, alla Piana Do Diablo, donna Aurelia faceva gli sciaqui disinfettanti per curare il suo occhio ferito e ascoltava musica tropicale. Mozart gli dava pena perché le faceva pensare a Don Erminio su dottori che, lo sentiva, non aveva fatto rientro al suo ambulatorio.

Mentre Alvino e Astor riparavano la sedia a dondolo lei prese il cavallino e lo attacco’ al carro.

“Vado in città disse, la zuppa è nel coccio, se avete fame riscaldatela”. Disse. E parti’ pensierosa.

Il carro attraverso’ la carretera 56 e incrocio’ due camion militari pieni di cadaveri. Si fece istintivamente il segno della croce. E per evitare di lasciarsi andare ai cattivi pensieri si sforzo’ di ricordare quando abitava lontano lontano da quel villaggio, quando abitava nel nord. All’odore dei gelsomini della sua casa di bambina. Eh, se aveva pianto quando capi’ che avrebbe dovuto lasciare per sempre quel giardino in cui aveva mosso i suoi primi passi.

Immersa nei ricordi giunse a Mammarranca una mezzoretta più tardi.
Gli spazzini stavano cancellando le tracce di quella repressione terribile.
Buttavano calce viva e lavavano i muri alla bell’e meglio. C’erano solo loro per la strada e questo anche se era giovedi’, giorno di mercato.

La vecchia transito’ a passo d’uomo e uno di loro si tocco’ il cappello, per salutarla.
“Avete visto il dottore?” Chiese lei. E lui fece cenno di no con il capo.

Quando giunse all’ambulatorio rimase quasi delusa nel constatare che la porta era come l’aveva lasciata la mattina prima. Scese dal carretto.
Entro’, guardo’ se c’era traccia del passaggio del medico e poi, contatato che tutto era tale quale al giorno prima, usci discretamente.
Attese che il tempo passasse, che il dottore ritornasse. Ma nulla. Un senso di malumore e di pena le si appiccicco’ alle ossa.

Che ore erano? Quanto tempo era rimasta ad aspettare? Non lo sapeva.
Senza pensare monto’ sul carretto e si diresse verso il mare, verso la basilica di Buenas Aires, di fronte al molo di levante.
E li’ si mise a sedere.
Calma.
Lascio’ passare il tempo, senza pensare, a guardare l’acqua putrida in cui la muffa di cui le aveva parlato il dottore faceva silenziosamente il suo lavoro.

Quel mare sporco che si puliva da solo. In tutto questo vide una grande bellezza.
E le sembro’ che il peso che provava nell’anima si alleviasse un poco.

Quando una leggera folata di vento le carezzo’ i capelli.

10 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 12)




Incrocio’ per le strade polverose e brulle una serie di camion che portavano le truppe di rinforzo a Mammarranca ,Vladymir Andrey Rostropovitch. Lui seguiva il ciondolare dolce e ironico di un cavallo filosofo con il quale amava discorrere. Lo chiamava Herr Doktor, e il cavallo, da tempo, pareva gradire quel nomignolo.

Erano due esseri solitari, e mentre attraversavano la “piana do diablo” sapevano, entrambi lo sapevano, che i guai non erano terminati per loro.

Era stato indetto il coprifuoco e si rastrellavano le case alla ricerca di Emiliano Maraboto, scampato al patibolo nonostante la condanna.

Si sentivano gli spari in lontananza, il regime e i fazenderos delle compagnie di cacao non ammettevano disordini. In quella notte maledetta, erano stati denunciati e passati per le armi senza troppi complimenti, decine di uomini e donne, solo perché sospetti di simpatizzare con i rivoluzionari.

E lui, il saltimbanco ebreo dallo sguardo triste e i piedi freddi, meditava amaro, sconsolato, mentre canticchiava una canzone yiddish della sua infanzia e ripeteva , come una cantilena, “ahi ahi ahi.
Hai agito d’istinto, vecchio mio”.
Aveva agito d’istinto, sissignore. Grave, gravissimo errore. L’istinto era il lusso dei poveri, dei perdenti. Il pane secco della vita.

“ahi ahi ahi”.

E lui, a costo di barare, aveva sempre preferito vincere.

Meglio non pensare. Piuttosto, ecco, si’, meglio perdersi nel clop clop ritmico di Herr Doktor che lo portava chissà dove tra palmeti e banani.


Passo’ un carro trainato da un cavallino piccolo e agile e guidato da una vecchia, fasciata in volto e da un ragazzino gracile.
Era il carro di Donna Aurelia che si recava in città.

Pam Crak Crak.

“Li senti Alvino?”
“Si’ nonna”
“Che siano maledetti. Uccidono senza remore, senza paura del diavolo”.
“Quella è gente che finirà male”.
“Si’ nonna”

E si imbatterono in un posto di blocco, all’entrata di Mammarranca.

“dove vai vecchia? “
“dal dottore”
“chi ti ha battuta? Sei una rivoluzionaria?”
“io lavoro soldato, non ho tempo per altro. Il mulo ha scalciato e io ho preso una brutta botta, lasciami andare che il dottore non aspetta”.

Sapeva essere autoritaria e per questo era rispettata nel villaggio, donna Aurelia. I soldati parlavano quel linguaggio e compresero che la donna non c’entrava con i motti.
All’entrata in Mammarranca Alvino e sua nonna videro delle scene atroci. Moltissimi corpi giacevano accatastati sul bordo delle strade principali. Alcuni eranoi legati, le mani dietro la schiena, altri colpiti mentre cercavano di fuggire.

Busso’ alla porta. Apri’ Erminio il dottore, visibilmente provato.
“Brutta giornata Donna Aurelia, cosa vi porta in città in un giorno come questo? Non avete sentito cosa è accaduto stanotte?”
“le disgrazie non prendono l’appuntamento, su Dottori, dovreste saperlo oramai”.
“già, già” accomodatevi.
“Cosa vi è accaduto? “
“ho male, male a un occhio, ho battuto”

Levo’ la fasciatura, delicatamente, per scoprire una ferita verticale molto brutta; che pareva aver colpito l’occhio in pieno.

“Una brutta ferita Donna Aurelia, c’è una emorragia della congiuntiva. Con cosa avete disinfettato? “
“Con impacchi di calendula e salvia, olio e miele.” Disse la donna.

“Avrete sangue in quest’occhio per una ventina di giorni, forse un mese. “
“Alzate la testa per favore. Guardate lontano. Ecco”
“E’ stata una fortuna che abbiate chiuso l’occhio”

“cosa è?” Chiese la donna.

“Temo una lesione della cornea”.
“E spero davvero che non sia nulla del genere perché in quel caso c’è possibilità di un leucoma. E rischiereste di diventare cieca ad un occhio”.

Alvino guardava i movimenti dei militari che marciavano armati per le strade di Mammarranca. Sembravano tanti soldatini di piombo, tutti uguali. Una volta ne aveva posseduto uno. Dipinto a mano e molto pesante. Ma nella sua immaginazione di ragazzetto non avrebbe mai fatto fare a quel soldatino le cose che vide.

Vide i soldati sfondare la porta di una casa. Uscirono d corsa due bambini e un uomo.
Si udirono gli spari e poi i corpi furono trascinati dai soldati ai lati della carreggiata.

Don Erminio sobbalzo’. “E’ tutta la notte che fanno questo. Maledetti”.

Tremava. Donna Aurelia lo guardo’ con discrezione. Il medico, con il pretesto di prendere delle fialette dal mobile vetrina, adesso le dava le spalle.
Dal leggero tremolio Donna Aurelia capi’ che stava singhiozzando, in silenzio.
Fece segno ad Alvino di chiudere la porta, che era rimasta semi aperta.
E tocco’ una spalla al dottore.
“passerà anche questa Don Erminio, quegli uomini hanno il tempo contato.”

“mi scusi ho bisogno di bere un goccio”
Si verso’ un bicchiere di Wiskey e ne offri’ alla donna.
“No grazie” disse lei.
Aveva gli occhi rossi, e stanchi, Don Erminio, e domando’:

“Dov’è Dio in questi giorni, perché ha abbandonato questa terra?”
“Dio è morto, su dottori.”
“Eppure c’è bellezza in questo mondo, grazia”.
“Si’ la bellezza c’è, è rimasta malgrado tutto. Malgrado noi”.

Lo sguardo asimetrico, con l’occhio destro, semichiuso, nel volto di Donna Aurelia, conferiva a quella chiacchierata una nota dolente.
Non era il loro solito conversare ironico. Non c’era leggerezza quel giorno, ma solo l’odore acuto del disinfettante.

“Siamo dei fuscelli, mi avete detto l’altra volta. Dei fuscelli al vento. Mai visto dei fuscelli tanto inutili, tanto feroci. Sapete una cosa Don Erminio? Io da ragazza credevo. Avevo la fede. Poi ho visto intere giovinezze spegnersi sotto il peso di cose troppo pesanti per loro, cose talmente pesanti da stritolare le ossa, portavano deformità e sofferenza. Che vita è questa? Ho parlato con il mio Dio e gli ho intimato: sparisci dalla mia vita. Sparisci; io vivro’ senza di te. Ho chiuso gli occhi attendendo un fulmine che mi incenerisse.Ho detto addio, è la fine. Ho aspettato un minuto , due, poi sa cosa? Il vento è passato tra i miei capelli. Ed ero sempre li’. Sotto il mio albero di acacia. Viva. Capisce dottore, viva, ma finalmente sola. Sulla terra”.

Guardo’ dalla finestra, la donna, e vide i corpi dei bambini, sembravano rami, piccoli rami di acacia.
“L’estinzione. Arriverà prima che ce ne rendiamo conto. E allora a cosa sarà servita la bellezza? Chopin, Mozart? A cosa? A ricordare che un giorno l’uomo fu?”.

“Si’ che l’uomo fu non solo “morte e disperazione”, Donna Aurelia. Che non ha vissuto solo per il dolore”.
E aggiunse come riprendendosi, risvegliandosi, aiutato da una fiducia che pensava, solo qualche minuto prima, perduta per sempre.

“Sapete cosa? La bellezza è dappertutto, non dove ce l’aspettiamo, la bellezza fiorisce anche nel letame”.

“Ve l’ho raccontata la storia di Brotzu? Era un vecchio uomo di scienza , Joseph Brotzu, che guardando la pozza maleodorante dello scarico fognario nel mare, qua di fronte, aveva notato una cosa. Nel marcio di quelle acque stava succedendo un prodigio. Perché il mare tanto sporco, vicino al molo di levante a un certo punto si faceva pulito?
Quest’uomo curioso aveva preso dei campioni d’acqua, pieni di batteri e li aveva esaminati, non si stupi’ di trovare i betteri terribili della salmonella. Sono quelli che ci hanno portato le febbri tifoidi, che qui sono ormai endemiche. Ma sapete cosa? C’era una muffa. Puf, sorta cosi’, una specie di fungo. Sorta cosi’? Non per lui. Cosa ci stava a fare quella muffa?
Quella muffa combatteva da sola e annientava i bacilli del tifo, del paratifo, ma anche del colera. Perfino della peste e della brucellosi.
Capisce Donna Aurelia? E tutto questo era nelle acque della fogna che noi scarichiamo in mare. Era nell’acqua putrida e combatteva i germi, sino a restituire l’acqua alla sua primordiale pulizia”.

“Il mondo è pieno di bellezza, ma bisogna saper guardare.”.

Alvino ascoltava incantato la storia della muffa dell’acqua e non si accorse dell’espressione di Donna Aurelia che aveva intravisto dietro i vetro delle figure arrivare.

Fu in quel mentre che i militari fecero irruzione: “Erminio Carboni Boy?” chiesero senza cortesia.
“Si’, sono io.”
“Venga con noi”

Non gli diedero neppure il tempo di chiudere l’ambulatorio.

Furono Donna Aurelia e Alvino che accostarono. Avevano fatto un piccolo cartello, che appesero sulla porta a vetri.

C’era scritto: “torno subito”.

9 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 11)



Nella piazza grande, risvegliati dal colpo di pistola, alcuni corvi svolazzavano tra i palmizi.

Cra cra.

Sembravano commentare ironicamente quanto avveniva poco sotto.

L’arrivo improvviso del cavallo arabo con il corpo di Billy lo gnomo aveva guastato la festa a una buona parte degli astanti. Certamente l’aveva guastata a Colmish e i suoi amici bracconieri inglesi.
L’aveva guastata un po’ meno a Emiliano Maraboto, il quale, respirava affannosamente con il cappio al collo.

Per pura formalità fu mandato a chiamare Erminio su dottori, a constatare l’evidente decesso di Billy lo gnomo.
Questo affare del ritrovamento pareva avere reso sgomenti i cacciatori inglesi. Lo avevano sempre detestato quel nano caparbio e saccente.
Si burlavano di lui ma lo temevano perché, a sentir loro, era capace di tutto.
E tuttavia parlavano sottovoce mentre il corpro del cacciatore veniva slegato dall’imbrigialtura che lo aveva tenuto in sella.

“Gran brutto segno” bofonchio’ Colmish prima di sputare per terra.
L’alcalde aspirava del tabacco da naso per mascherare la sua rabbia. Era furente. Ci si metteva l’inferno adesso a rovinare una festa tanto bene concepita?

Don Erminio arrivo’ con passo svelto e fece disporre il corpo di Billy su un tavolo. Lo esamino’ in silenzio, mentre attorno a lui si formava un cappannello di gente e il vociare cresceva.

“E’ stato l’uomo lupo, è stato l’uomo lupo”. Diceva uno.
“Si capisce, guarda come l’ha ridotto.” Replicava l’altro. E il brusio cresceva.

C’era chi giurava di averlo visto aggirarsi proprio quella sera. Chi aveva visto delle ombre minacciose. Chi ne aveva sentito l’odore.
Questo dell’odore era un’altra delle leggende che circolavano sugli uomini lupo. Benché nessuno avesse potuto sopravvivere per raccontarlo erano diverse le dicerie che associavano all’uomo lupo un odore di zolfo.
Ma questa cosa era considerata dagli studiosi di scienza mannara alla stregua di una banale superstizione.

Tutto tacque quando il dottore prese la parola. Parlava rivolto verso l’alcalde.

“E’ un corpo i cui tessuti sono lacerati in profondità.” Sospiro’ il dottore, poi riprese.
“Difficile definire chi o cosa l’abbia potuto ridurre in questo stato. Avrei bisogno di fare un’autopsia accurata”.

Misurava le parole per conferire ad esse il massimo dell’autorità. Aveva capito bene quel posta era in gioco.

“E tuttavia, è un evidenza, occorre una certa forza a fare una cosa del genere…”

L’alcalde interruppe il suo agromentare: “Grazie dottore. E’ triste constatare che le violenze non hanno avuto fine”
Poi, per modificare la piega indesiderata che le sue parole parevano avere preso, aggiunse…

“perseguiremo il trionfo della giustizia, da domani stesso. Adesso che si riprenda cio’ che è stato interrotto.”

I contadini guardarono con sguardo attonito.

“dichiaro ripresa l’esecuzione del condannato” Sentenzio’ l’alcalde perentorio.
Lupita Maraboto era vicinissima al dottore. Il suo sguardo disperato implorava una dichiarazione più esplicita.

Fu fatto segno al batterista della banda di riprendere le rullate.



TTTTRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

TTTTRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

TTTTRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR


Fu allora che, infrangendo una regola basilare del suo personale decalogo di picaro, prese la parola Vladymir Andrey Rostropovitch.
“un attimo prego”. Interruppe con il cenno di una mano il rullare.

“Non che mi interessi in alcun modo la vita di un uomo del popolo, ma eccellenza… “A tson darf geshatst vern mer vi an even-tov”. Come disse il grande Miguel de Cervantes e cioè:
“si deve dare più valore a un dente che a un diamante.”


Eccellenza illustrissima. Tutti hanno ammirato l’equilibrio del Vostro Giudizio ed è per questo che mi permetto di intromettermi, questa fretta non si confà a un uomo di tale immane statura”.

L’alcalde fu costretto a sorridere.

“Dottore, avete detto che occorre una forza straordinaria per ridurre un uomo in questa maniera?”
Chiese a don Erminio.

“e’ un evidenza, lo ripeto”.

“Intendete con questo che potrebbe trattarsi di una belva?”

“naturalmente, potrebbe benissimo”.

“Oltre a cinghiali quali altre bestie feroci popolano la Piana Do Diablo? Leopardi, tigri, pantere?”

“Non siamo ridicoli” Disse il dottore.

Aveva preso l’attenzione di tutti. Ma soprattutto di Lupe Maraboto, che era la sola che in quel momento gli interessasse per davvero; e che lo guardava piena di speranza.

“Ma allora eccellenza, si pone il sospetto che il lupo mannaro abbia colpito ancora una volta”.

“Il lupo mannaro è stato catturato” urlo’ Colmish.


L’alcalde prese la parola : “Egregio forestiero, il condannato, in virtu’ di prove inoppugnabili è reo dei crimini a lui ascritti e per questo verrà giustiziato”.
“Da domani stesso, inoltre, come affermato, la giustizia farà il suo corso e perseguirà il responsabile di tale crimininoso abominio”.

In nome del potere da me costituito ordino che si dia atto all’esecuzione.”

Il tamburo riprese a rullare mestamente.

TTTTRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

TTTTRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

Il padre francescano benedicendo il condannato disse: "sia fatta la volontà di Dio".
E quella fu l’ultima parola distinta che si udi’ per un pezzo perché la folla dei campesinos insorse rovesciando balaustre e invadendo spazi a loro proibiti. Era come l’onda di un fiume in piena che prese alla sprovvista tutti.

“Questa è una rivolta. Una rivolta!”
disse l’alcalde.
E chiese “ordinate il fuoco” al tenente che comandava uno sparuto drappello.

“fuoco disse rivolto agli uomini.
Ma questi non ubbidirono. “fuoco, ve lo ordino” intimo’ l’alcalde prima di essere travolto dalla marea umana che pareva dilagare.
I bracconieri avevano lasciato i loro fucili nella locanda e cercarono di attraversare lo spiazzo, ma furono travolti a loro volta, da una folla inferocita che comincio’ a pestarli.

Vladymir Andrey Rostropovitch disse “a shynem danke in pepek” mentre brindava sorridendo a Lupe Maraboto.

“Eh stai invecchiando vecchio mio, hai rotto il tuo voto. Ti sei immischiato. La bellezza angelicata ti ha preso l’anima e ti ha trascinato fino a qui, fino a scatenare una rivolta popolare”.

Ridacchiava da solo mentre pareva prendersela comoda, osservava come fosse su un palco del teatro a vedere l’opera; e invece era nel bel mezzo della piazza. L’unico, insieme a Don Erminio, che sembrava non potere essere coinvolto dal furore generale. Osservavano in piedi immersi in quel finimondo, uno poco distante dall’altro, come fossero invulnerabili, inconsistenti quasi, come fossero rocce cui l’acqua, scorrendo, rendesse omaggio con un mulinello. Riconoscendo loro autoritas e fermezza.

In breve la forca fu divelta ed Emiliano liberato.

Si sparo’, che qualche proprietario di latifondo portava la pistola. E fu un atto scellerato perché il fiume in piena si ritrasse per un istante. Lasciando intravvedere qualche corpo esanime , steso per terra. Per poi rifluire più fragoroso di prima.
E tutto questo fu l’inizio. Fu l'inizio una piena inarrestabile che avrebbe determinato nuove stagioni e nuove speranze ma anche, disgraziatamente, nuove terribili repressioni.

8 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 10)



SECONDO MOVIMENTO



Sul fuoco c’erano due pentolini di coccio.

In uno preparava un’effusione a base di miele, olio di arachidi, calendula e salvia, all’uso creolo, per medicare quelle ustioni da frusta, nell’altro una zuppa di fave che aveva imparato a cucinare da bambina e che aveva rifocillato i Picocca per secoli e secoli, dopo le loro scorribande.

Le ferite provocate dalla frusta di Billy lo gnomo sembravano avere leso un occhio. E bruciavano.

Astor, nella grotta insieme ad Alvino cercava di riassettare, di cancellare le tracce del passaggio di quel mezzo uomo la cui furia aveva portato spavento e distruzione.

Tremava visibilmente mentre lavorava . E la vecchia ne aveva pena. Alvino, dal canto suo, parlava il minimo indispensabile, dato che anche lui era scombussolato.

In qualche minuto i pochi beni di cui disponevano Donna Aurelia e suo nipote, erano stati quasi interamente distrutti.

Ma non erano le cose e i cocci a portare sgomento quanto l’evidente fragilità del loro segreto di famiglia, che adesso, d’un tratto, pareva palese.
Astor aveva ucciso Billy lo gnomo, ma aveva capito che Alvino era il famigerato Lupo Mannaro che tutti ricercavano?
Aveva compreso che Donna Aurelia dominava la scienza dell’invisibilità?

Queste domande aleggiavano, inespresse, e rendevano l’atmosfera plumbea.
La donna si avvicino’, barcollante, al grammofono, miracolosamente incolume; giro’ la manovella e una lieve musica di Mozart si diffuse, a riscaldare gli animi.

“Come stai nonna?” riprese a parlare Alvino.
“brucia, ma mi rimettero’, tieni, bevi la zuppa”

Cercava di rassicurare quei due ragazzetti. E di fare passare il tempo,come aveva imparato nei periodi peggiori della vita.

“Bevi questa zuppa, ti farà bene” aveva detto anche ad Astor porgendogli una ciotola.
Lui continuava a tremare come una foglia. Era stordito e, lo sguardo perso, faticava in silenzio. Spazzava e rimetteva su il tavolo e raccoglieva i cocci.

“Hai freddo. Non ti preoccupare, è la morte che devi superare e che adesso ti abita nelle ossa”.
“Passa con il tempo, vedrai.”

Mentiva, lo sapeva benissimo che la morte lasciava un alone indelebile su quelle anime giovani.

Ed era quella amara constatazione che, da ragazza, le aveva fatto perdere la fede.

Studiando le pagine del taccuino nero aveva intuito la grandezza e il dolore immenso che la sua stirpe, marchiata dal “dono”, aveva dovuto patire.

Quelle adolescenze divorate dall’uccidere e dalle amarezze della vita erano apparse come uno spreco, lo spreco della bellezza inaudita che, malgrado tutto, era, per lei, la vita”.

Finito che ebbero di riassettare e di mangiare la zuppa la donna lascio’ sfreddare l’unguento, in una bottiglia sotto l’acqua fredda. Alvino ammirava la pazienza infinita che Donna Aurelia dimostrava. Le ferite sanguinavano e lei le asciugava con un panno umido, senza un lamento, come fossero su una pelle non sua.
Alvino e Astor la fasciarono. E dopo qualche tempo l’unguento comincio’ ad alleviare il morso delle arsure.

Lo sguardo di Astor sembrava un altro dopo quella mezz’ora. E il volto aveva ripreso il colorito abituale.
“Posso metterla a posto, mio padre mi ha insegnato a lavorare il legno” disse Astor guardando la sedia a dondolo ormai in pezzi.
“Davvero? Lo sapresti fare?”
“Domani mi ci metto”

Il ragazzo ,orfano di padre, avava imparato presto a darsi da fare. Sua madre e due fratelli piccoli gravavano sulle sue gracili spalle da quando gli squadroni neri si erano portati via suo padre una notte di inverno di qualche anno prima. Non aveva fatto più ritorno e sua madre, da allora si era richiusa in casa. Sepolta viva dato che “un mondo del genere è meglio non vederlo”.
Parlava con le ombre ed era divenuta, stando alle malelingue, lei stessa un ‘ombra. Lo spettrodi quello che fu un tempo quando, bella e giovane, aveva tutti gli uomini della piana Do Diablo ai suoi piedi.

Misero da una parte dietro la tenda quel che rimaneva della sedia a dondolo, Donna Aurelia e Alvino. E guardarono Astor allontanarsi per raggiungere il suo gregge.

Poi, prima di addormentarsi Aurelia mise dell’acqua abbondante per lavare le tracce di sangue, e con la scopa spazzo’ il patio per cancella re ogni taccia di scarpe e zoccoli.

Tutto sembrava tranquillo e i grilli ripresero a cantare in quella notte lunghissima che ancora non sembrava finire.

6 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 9)



Aveva ordinato dell’acqua calda, nella sua stanza al secondo piano della Volpe d’argento, Vladymir Andrey Rostropovitch, e ora stava disponendo tutti gli oggetti per la rasatura, in ordine,uno dopo l’altro, di fianco al catino smaltato.
Gli piaceva quel rituale che ripeteva metodicamente e con gesti precisi . Era “casa” per lui. Il segno che, ovunque si trovasse a vagabondare nella sua vita nomade, quella certezza non mutava.

“Da come ci si rade si capisce che tipo di uomo sei” gli aveva ripetuto più volte suo padre.

E lui di quello aveva fatto una regola. Rasarsi, sempre, con cura. Questione filosofica, che alla vita, come alla morte ci si deve presentare “in ordine”.
Bisognava essere Choshever mentsh, persona dignitosa. Qualunque mestiere la vita ci permettesse di esercitare.

“l’acqua calda, senor”
"A shaynem dank in pepek!" replico’ meccanicamente il picaro.

E prese a radersi, come sua abitudine, per essere perfetto prima di uno spettacolo. La luna era già alta.

Frattanto Colmish rientrava con il codazzo dei suoi amici bracconieri a prendere abbondanti libagioni da portare in piazza. La forca era pronta e il processo volgeva al termine; procedeva con ritmo adesso. Merito della frescura arrivata con la sera, e dell’alcol che aveva suggerito scorciatorie alle prassi processuali. Al grido di “Giustizia rapida” bracconieri e latifondisti avevano incitato l’alcalde a concludere, la festa non poteva aspettare. E c’era di che festeggiare, che diamine. La cattura di un pericolo pubblico mannaro e la dovuta ricompensa che i bracconieri inglesi sapevano di meritare.
E poi era arrivata pure l’orchestrina di sei elementi che intonava canzoni messicane.
Tutto lasciava prevedere un’ottima notte di baldoria da concludere, eventualmente, al bordello.

“Questa sera… lasciatemi parlare esimi colleghi, questa sera… si premierà colui che avuto l’intuizione, che ha saputo stanare il lupo mannaro”.

“Hurrah”

E questi offrirà il bordello e il Rhum a tutti i bracconieri, a titolo di rimborso morale”.

“Hurrah”

“Non prima di avere decretato finita la battuta di caccia e di avere espletato la pesa della preda.”

“Hurrah”


Parlava di se stesso in terza persona, Colmish, dato che aveva cominciato a considerarsi per davvero “Sir”.
E voleva mostrarsi sovrano generoso, poiché era lui la persona che aveva ricevuto, a titolo confidenziale, dall’alcalde, l’informazione su chi era il lupo.

Arrivo’ un carro, con una bilancia, visto che l’accordo tra la cittadinanza e i bracconieri era che si sarebbe pagato tanto oro quanto l”uomo lupo pesava.

La Plaza de la Libertad cominciava a popolarsi. I contadini e pastori uscivano dalle case e venivano dalla piana, a piedi perlopiù. Non avevano il volto allegro. E non solo perché avrebbero dovuto pagare con oboli e donazioni per ringraziare il governatore e i bracconieri.
Non erano allegri dato che sapevano bene che Aureliano era accusato più per le sue idee politiche che per reali crimini.

Già in passato l’alcalde aveva utilizzato pratiche poco ortodosse per contrastare la diffusione di pericolose idee sovversive. Queste, era chiaro, unite alla fame dei campesinos non promettevano altro che guai. Quindi dal presidente Fulgenzio Villa e dai boss delle compagnie bananiere o di cacao, era stata richiesta una certa stabilità che l’alcalde aveva ottenuto con il pugno di ferro.


Mentre scendeva le scale con l’intento di mettere qualcosa sotto i denti, Vladymir Andrey Rostropovitch, noto’ che nella piazza si stava radunando una piccola folla.
Fotografo’ con il suo occhio clinico quale era il luogo migliore per piazzare il suo banchetto e potere esercitare lo spettacolo d’arte varia che aveva ccosi’ ben rodato in questi anni.

Decise che vicino all’orchestra era troppo rumoroso. La forca avrebbe distratto l’attenzone dal suo spettacolo. Il tribunale all’aperto era un luogo di troppo transito mentre invece, piuttosto, il gazebo delle bibite, offriva un trastito moderato. E qualcuno con un bicchiere in mano, di solito, cerca un posto tranquillo. Fardinen a mitzvah, Ottima soluzione, penso’ tra se e se.


Mentre gustava un piatto di panada di cinghiale, condito alla maniera del sud, con semi di finocchio e pomodori secchi, l’ipnotizzatore noto’ una donna tra la folla. Non l’avevano fatta entrare nella aula del processo, dato che era una donna del popolo e il popolo osservava da fuori. Alta con i capelli e gli occhi neri, aveva un portamento fiero e sembrava cercare, con lo sguardo, Emiliano Maraboto. Emiliano era l’imputato ed era talmente prostrato per l’andamento delle cose non sembrava più seguire con alcun interesse la sua propria sorte.

Da due colpi di martello di legno e da un’acclamazione dei signorotti del luogo e dei bracconieri era chiaro che il verdetto era stato emesso. L’alcalde si sollevo’ e dichiaro’ tolta la seduta.
“finalmente, basta con questa parrucca” e si diresse verso il gruppuscolo di latifondisti che applaudivano.

Emiliano fu preso e portato verso la pesa.

“49 chili” disse il contaiuolo
e qualcuno tra i latifondisti lancio’ un torsolo di mela. “sei magro, mangia un pochino". E giu’ a ridere.

Lo spettacolo stava per cominciare ed Emiliano fu fatto salire sulla forca. La donna cercava di avvicinarsi.

Dalla terrazza all’aperto della Volpe d’argento Vladymir Andrey Rostropovitch seguiva la scena.
“Molto buona la Panada.”
“gracias senor”
“Ah senti, Pedro, chi è quella donna?”
“Quale senor?”
“Quella alta che si sta muovendo, la’ vicino alla forca”
“Quella è Lupita Maraboto senor, è la sorella di Emiliano”

Conversava per comprendere il sentimento del luogo, una vecchia tattica appresa con il tempo e l’esperieza, che gli aveva salvato la vita diverse volte in passato.

“sarete contenti che hanno catturato l’uomo lupo, eh Pedro? Un bel sollievo per il villaggio…”
“Se fosse vero senor. Ma Emiliano non è l’uomo lupo, non più di quanto non lo siamo io o voi”

Mentre pagava il conto non staccava l’attenzione dalla scena ammaliato dalla bellezza e dallo sguardo disperato di Lupita Maraboto.

L’amminsitratore diede disposizione che la cittadinanza venisse tassata per i prossimi sei giorni di 49 chili d’oro da versare a “Sir” Colmish, meritevole di avere liberato Mammarranca dall’incubo e dai crimini dell’uomo lupo.

Fu fatta un’ovazione ripetuta per i bracconieri tutti. E prese la parola Colmish per un suo breve discorso.
La donna cercava di parlare con Emiliano, il quale, stordito, non prestava attenzione a nulla.
Fu fatto chiamare il prete; Emiliano disse che preferiva morire vedendo il cielo. Niente cappuccio.

L’orchestrina adesso aveva cessato di suonare ad eccezione del batterista che aveva cominciato a fare delle lunghe rullate


TTTRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR


Quelle rullate avevano aumentato la distanza tra gli umori degli astanti. I campesinos erano scuri in volto, per nulla disposti a fare festa, mentre i proprietari terrieri, gli amministratori, l’alcalde, e i bracconieri avevano cominciato a ridere a crepapelle, assaporando lo spettacolo minuto per minuto.

Fu messo il cappio a Emiliano.
Lupita lo chiamava ma: lui, anche se vicinissimo pareva non udirla.

Bofonchiava qualcosa, lo sguardo perso nel vuoto, qualche suono inarticolato che pareva incomprensibile e che nelle sue intenzioni avrebbe suonato come:
“Viva la revolucion….A morte Fulgenzio Villa”.

TTTRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

TTTRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

TTTRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR

Fu in quel momento, dopo l’ennesima rullata che Vladymir Andrey Rostropovitch sparo’ un colpo in aria con la sua colt 45.
Giusto per richiamare l’attenzione su quanto stava accadendo a un lato della piazza.

Era giunto, con la bava alla bocca e visibilmente agitato, un magnifico cavallo arabo nero.

Portava, legato alla sella, e tenuto eretto con due bastoni di legno, come fosse un vero cavaliere, un uomo orrendamente mutilato. Straziato da ferite profondissime che l’avevano quasi tagliato in due.

Tutti si voltarono e riconnobbero in quel corpo privo di vita Billy lo gnomo.

FINE PRIMO MOVIMENTO

5 maggio 2006

ARGENTO! (capitolo 8)




Aurelia era stata svegliata di soprassalto da un urlo terribile giusto in tempo per vedere Billy lo gnomo minacciare Alvino. E per vedere Alvino pietrificato dallo spavento lasciar cadere per terra il prezioso volume nero che di solito lei portava sempre con sé, in una tasca appesa al collo.

TUMP, fece il libro sul pavimento di piertra.

Puntava il fucile contro il petto del ragazzetto, Billy lo gnomo, e non sembrava affatto ragionevole, nossignore. Al colmo di una rabbia sorda e ferina ridacchiava e bofonchiava tra se e se, masticando le parole:
“ti ho preso, bastardo”.
“he he he he”
“Sarai la mia fortuna. Tu sarai la mia fortuna”.

Fu in un baleno che la vecchia si inginocchio’ per raccogliere il taccuino da terra.
E Billy, intuendo che era oggetto di interesse, sempre guidato dal suo istinto animale, fece uno scatto per strapparglielo.

Ma invano.

Aurelia indietreggio’.

Se Billy lo gnomo fosse entrato in possesso di quel taccuino nero, sarebbe stata la cosa più terribile; dato che al suo interno erano annotate le biografie di decine e decine di personalità mannare che lungo i secoli avevano turbato i sonni dei più, in Parador e altrove.
La prova delle prove, insomma.

Era quello il momento che, più di ogni altro, una femmina della genia dei Picocca temeva. Addestrate a custodire il segreto, sin dalla culla. Fu anche a costo della vita, che la storia rimase nascosta, remota ad occhi profani, per secoli.

E cosi’, mentre Billy si guardava indietro per verificare che ad Alvino non venissero strane idee, la donna gli passo’ dietro e fece quel che avrebbe scioccato Alvino per tutta la sua esistenza a venire: divenne invisibile.

Semplicemente, come aveva studiato sin da bambina, d’un tratto scomparve.
Era quella la scienza segreta delle donne.

Billy lo gnomo non capi’ esattamente cosa stava accadendo, dava le spalle alla vecchia in quel preciso momento; ma si accorse di un’espressione di immenso stupore che si dipingeva nel volto del ragazzetto.

Si giro’ di scatto, sentendosi minacciato e fece fuoco, colpendo in pieno il ritratto fotografico del dittatore Fulgenzio Villa appeso alla parete. Il quadro piombo’ fragorosamente a terra e schizzo’ in mille schegge.
Poi, al colmo della rabbia, comincio’ a sferzare l’aria con la frusta che serrava nella mano sinistra. Nel tentativo di colpire la donna che nessuno sapeva più dove era.

Alvino era immobile, muto, con una lacrima che gli colava per la guancia, completamente incapace di reagire.

AAAAAHHHHHHHHHHHHHRRRRRRRRRR

Ringhiava Billy lo gnomo mentre faceva a pezzi la sedia a dondolo di Donna Aurelia e gettava per terra, a calci, il tavolo con piatti, brocche e vivande.
Era una furia e a vederlo dall’esterno si sarebbe detto che fosse lui, il lupo mannaro in questione.

Fu mentre tutto questo accadeva che un forcone a tre punte lo penetro’ da parte a parte. E lo sollevo’ da terra con la forza che solo un odio feroce poteva donare a un essere umano.
Bizzarramente Billy lo gnomo non aveva più fiato in corpo adesso, e strabuzzava gli occhi, mentre Astor Lupinu, apparso dietro la tenda, lo sbatteva a terra, fuori dalla grotta, ancora infilzato dal forcone da fieno.

Gliela aveva giurata.

E quando l’urlo lo aveva svegliato, Astor, che pascolava il suo gregge poco distante, a Su Mortoriu, aveva capito che Billy lo gnomo era tornato.
Lo sparo non aveva fatto che confermare; non erano tanti i contadini a disporre di fucili.

E adesso il forcone vibrava, premuto nel corpo dell’ometto. Che sputava sangue e guardava, guardava fisso negli occhi il suo carnefice, Astor il pastore, che giorni prima aveva affrontato e che adesso rideva. E nel fondo degli occhi scruto’ con le ultime forze, come poteva, per vedere se la luce dell’odio era svanita da quegli occhi nerissimi.
E gli sembro’ di morire più tranquillo all’idea che quell’adolescente lo avesse forse perdonato.


Nella grotta Alvino tirava il respiro.
“nonna” disse.
“nonna, dove sei”

E vide due goccie colore rubino cadere per terra, mentre la donna lentamente riappariva ai suoi occhi.

Aveva il volto rovinato e sanguinante. Che la frusta di Billy aveva colpito nel segno.
Ma lei aveva saputo trattenere il dolore.